Un cucciolo che morde il nulla

Mahmud Darwish

Se Mahmud Darwish (1941-2008) fosse ricordato solo per essere stato prima un militante del partito comunista d’Israele, poi un componente (dimissionario) del Comitato Esecutivo dell’OLP, infine un membro del Parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, o se il suo scritto più noto fosse la Dichiarazione d’indipendenza (dello Stato) palestinese, non avremmo ragione alcuna di riproporre qui i suoi testi. Ma ci è impossibile trascurare il fatto che egli fu soprattutto il poeta i cui versi in tutto il mondo sono stati considerati «il respiro stesso della Palestina», fino a costringerlo a una vita d’esilio. Ebbene, in queste ore atroci, non è forse questo il respiro che andrebbe rianimato?

Silenzio per Gaza

Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere. Non si tratta di morte, non è un suicidio.
È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate in ogni direzione.
Non è magia, non è prodigio.
È l’arma con cui Gaza difende il diritto di restare e snerva il nemico.
Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni, sedotto dal flirtare con il tempo, eccetto a Gaza. Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici, perché Gaza è un’isola. Ogni volta che esplode, e non cessa mai di farlo, sfregia il volto del nemico, ne spezza i sogni, ne interrompe l’idillio con il tempo. Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa, perché il tempo a Gaza non è un elemento neutrale. Non spinge la gente alla fredda contemplazione, ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà. Il tempo laggiù non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende adulti al primo incontro con il nemico. Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente. Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi. L’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante. Questa è l’unica competizione in corso laggiù. E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha appreso dai libri o da un corso accelerato per corrispondenza, né dalle fanfare dispiegate della propaganda o dagli inni patriottici. L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità e di un ritorno d’immagine.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e versa il suo sangue.
Gaza non è un fine oratore, non ha gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.
Per questo, il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.
Per questo, gli amici e i suoi cari la amano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza è barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici.
Gaza non è la città più bella.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe.
Le sue arance non sono le migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca.
(Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate dal vento, merce di contrabbando, braccia a nolo.)
Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché, agli occhi dei nemici, è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo. Perché è arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché è tutte queste cose, è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.
Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie. Non sfiguriamone la bellezza, che risiede nel suo essere priva di poesia. Al contrario, noi abbiamo cercato di sconfiggere il nemico con le poesie, abbiamo creduto in noi e ci siamo rallegrati vedendo che il nemico ci lasciava cantare e noi lo lasciavamo vincere. E mentre le poesie si seccavano sulle nostre labbra, il nemico aveva già finito di costruire strade, città, fortificazioni.
Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste. Quando ci chiediamo cosa l’abbia resa un mito, dovremmo mandare in frantumi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.
Faremmo un torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra attrazione per Gaza ci induce ad aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua, i suoi invasori. Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianto per le case perdute.
Vero è che Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari.
(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)
Ma il suo segreto non è un mistero: la sua coesa resistenza popolare sa benissimo cosa vuole (vuole scrollarsi il nemico di dosso). A Gaza il rapporto della resistenza con le masse è lo stesso della pelle con l’osso e non quello dell’insegnante con gli allievi.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione. Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno.
Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza. Non ha mai inteso essere fotogenica, né tanto meno un evento mediatico. Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.
Perché non vuole questo, e noi nemmeno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche. La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto, e non incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori. Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone nel Consiglio nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo nella parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al dissenso: fame e dissenso, sete e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio su Gaza. (Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma Gaza:
non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte, non è un suicidio. È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.

Stato d’assedio

Qui, sui pendii delle colline,
dinanzi al crepuscolo e alla legge del tempo
Vicino ai giardini dalle ombre spezzate,
Facciamo come fanno i prigionieri,
Facciamo come fanno i disoccupati:
Coltiviamo la speranza.

Un paese che si prepara all’alba. Diventiamo meno intelligenti
Perché spiamo l’ora della vittoria:
Non c’è notte nella nostra notte illuminata
Da una pioggia di bombe.
I nostri nemici vegliano,
I nostri nemici accendono per noi la luce
Nell’oscurità dei sotterranei.

Qui, nessun «io».
Qui, Adamo si ricorda che la sua argilla
È fatta di polvere.

In punto di morte, dice:
Non posso più smarrire il sentiero:
Libero sono a un passo dalla mia libertà.
Il mio futuro è nella mia mano.
Ben presto penetrerò nella mia vita,
Nascerò libero, senza madre né padre,
E mi sceglierò un nome di lettere d’azzurro…

Qui, fra spirali di fumo, sui gradini di casa,
Non c’è tempo per il tempo.
Come chi s’innalza verso Dio,
Dimentichiamo il dolore.

Nulla qui fa riecheggiare Omero.
I miti bussano alla nostra porta, se vogliono.
Nulla riecheggia Omero. Qui, un generale
Scava alla ricerca di uno Stato addormentato
Sotto le rovine di una Troia che verrà.

Voi, ritti in piedi sulla soglia, entrate,
Bevete con noi il caffè arabo.
Sentirete che siete uomini come noi.
Voi, ritti in piedi sulla soglia delle case,
Uscite dalla nostra alba.
Ci sentiremo sicuri di essere
Uomini come voi!

Quando gli aerei scompaiono, spiccano il volo le colombe
Bianchissime, lavano la guancia del cielo
Con ali libere, riprendono il bagliore e il possesso
Dell’etere e del gioco. In alto, ancora più in alto volano via
Le colombe bianchissime. Ah, se il cielo
Fosse vero… (mi ha detto un uomo correndo fra due bombe).

I cipressi, dietro i soldati, minareti che s’innalzano
Per non far crollare il cielo. Dietro la siepe di ferro
Pisciano i soldati – al riparo di un carro armato –
E la giornata autunnale conclude la sua traiettoria dorata
In una strada vasta come una chiesa dopo la messa domenicale…

(A un assassino) Se avessi contemplato il volto della vittima
E riflettuto, ti saresti ricordato di tua madre nella camera
A gas, avresti buttato via le ragioni del fucile
E avresti cambiato idea: non è così che si ritrova un’identità.

La nebbia è tenebre, tenebre dense bianche 

Mondate dall’uragano e dalla donna gravida di promesse.

L’assedio è attesa,
Attesa su una scala inclinata
In mezzo all’uragano.

Soli, siamo soli a bere l’amaro calice,
Se non fosse per le visite dell’arcobaleno.

Abbiamo fratelli dietro quella spianata,
Fratelli buoni, che ci amano. Ci guardano e piangono.
Poi si dicono in segreto:
«Ah! Se quest’assedio venisse dichiarato…»
Lasciano la frase incompiuta:
«Non lasciateci soli, non abbandonateci».

Le nostre perdite: da due a otto martiri, giorno dopo giorno.
E dieci feriti.
E venti case.
E cinquanta ulivi…
Aggiungeteci la perdita intrinseca
Che colpirà il poema, l’opera teatrale, la tela incompiuta.

Una donna ha detto alla nube: copri il mio amato
Perché ho le vesti grondanti del suo sangue.

Se non sei pioggia, amor mio
Sii albero
Colmo di fertilità, sii albero
Se non sei albero, amor mio
Sii pietra
Satura d’umidità, sii pietra
Se non sei pietra, amor mio
Sii luna
Nel sogno dell’amata, sii luna
(Così parlava una donna
che dava sepoltura al figlio)

O ronde della notte! Non siete stanche
Di spiare la luce nel nostro sale
E l’incandescenza della rosa nella nostra ferita,
Non siete stanche, ronde della notte?

Un lembo di questo infinito assoluto azzurro
Basterebbe
Ad alleviare il fardello di questo tempo
E a spazzare via la melma di questo luogo.

Che l’anima scenda dalla sua cavalcatura
E cammini con passi di seta
Al mio fianco, mano nella mano, come due amici
Di vecchia data che condividono il pane secco
E un bicchiere di vino della vecchia vigna,
Per poter attraversare insieme questa strada.
Poi i nostri giorni seguiranno sentieri diversi:
Io al di là della natura, e lei,
Lei preferirà inerpicarsi su un’altra vetta.

Siamo lontani dal nostro destino come gli uccelli
Che fanno il nido negli anfratti delle statue,
O nella cappa del camino, o nelle tende
Dove riposava il principe andando a caccia.

Sulle mie macerie spunta verde l’ombra,
E il lupo sonnecchia sulla pelle della mia capra.
Sogna come me, come l’angelo,
Che la vita sia qui… non laggiù.

Nello stato d’assedio, il tempo diventa spazio
Pietrificato nella sua eternità
Nello stato d’assedio, lo spazio diventa tempo
Che ha mancato il suo ieri e il suo domani.

Questo martire mi bracca
ogni volta che vedo spuntare un nuovo giorno
E mi chiede: Dov’eri? Annota sui dizionari
Tutte le parole che mi hai offerto
E libera i dormienti dal ronzio dell’eco.

Il martire mi spiega: Non ho cercato al di là della spianata
Le vergini dell’immortalità, perché amo la vita
Sulla terra, fra i pini e gli alberi di fico,
Ma era inaccessibile, così ho preso la mira
Con l’ultima cosa che mi appartiene: il sangue
Nel corpo dell’azzurro.

Il martire mi avverte: Non credere alle loro storie
Credi a me, padre, quando osservi la mia foto e chiedi piangendo:
Come hai potuto scambiare le nostre vite, figlio mio,
Perché mi hai preceduto? C’ero io, c’ero prima io!

Il martire non mi dà tregua: ho solo spostato il mio posto
Ed i miei mobili consunti.
Ho posato una gazzella sul mio letto,
E una falce di luna sul mio dito,
Per alleviare la mia pena.

L’assedio continuerà, per convincerci a scegliere
Una schiavitù che non fa male,
In piena libertà!

Resistere significa: accertarsi della forza
Del cuore e dei testicoli, e del tuo male tenace:
Il male della speranza.

In quel che resta dell’alba, cammino verso il mio involucro esterno
In quel che resta della notte, ascolto il rumore dei passi
rimbombare al mio interno

Saluto chi come me insegue
L’ebbrezza della luce, lo splendore della farfalla,
Nell’oscurità di questo tunnel.

Saluto chi beve con me dal mio bicchiere
Nelle tenebre di una notte che entrambi ci avvolge:
Saluto il mio spettro.

Per me i miei amici preparano sempre una festa
Di addio, una sepoltura serena all’ombra delle querce
Un epitaffio inciso nel marmo del tempo
E sempre ai funerali li precedo correndo:
Chi è morto… chi?

La scrittura, un cucciolo che morde il nulla
La scrittura ferisce senza lasciar tracce di sangue.

Le nostre tazze di caffè. Gli uccelli, gli alberi verdi
Nell’ombra azzurrina, il sole che scivola di muro
In muro con balzi di gazzella
L’acqua delle nubi dalla forma illimitata – tutto quel che ci resta.

Il cielo. E altre cose dai ricordi sospesi
Rivelano che questo mattino è potente splendore,
E che noi siamo i convitati dell’eternità.

Passanti tra parole passeggere

O voi che passate tra parole passeggere

portate i vostri nomi,

e andatevene.

Ritirate le vostre ore dal nostro tempo,

e andatevene.
Rubate ciò che volete dall’azzurro del cielo

e dalla sabbia della memoria.
Prendete le foto che volete, per capire
che non saprete mai

come una pietra dalla nostra terra

costruisca il soffitto del nostro cielo.

O voi che passate tra parole passeggere

voi fornite la spada, noi il sangue

voi fornite l’acciaio e il fuoco, noi la carne

voi fornite un altro carro armato, noi un sasso

voi fornite una bomba lacrimogena, noi la pioggia.
Ma il cielo e l’aria
sono gli stessi per voi e per noi.

Allora, prendete la vostra parte del nostro sangue,

e andatevene.

Recatevi a cenare, festeggiare e ballare,

poi andatevene.

Spetta a noi custodire i fiori dei martiri.

Spetta a noi vivere come desideriamo.

O voi che passate tra parole passeggere

come la polvere amara, passate dove volete

ma non fatelo tra noi, come insetti volanti.
Abbiamo da fare nella nostra terra

dobbiamo coltivare il grano,
innaffiarlo con la rugiada dei nostri corpi.
Abbiamo qui ciò che a voi non aggrada:
pietre e pernici.
Allora, se volete, portate il passato

al mercatino delle antichità
e restituite lo scheletro all’upupa

su un vassoio di terracotta.
Abbiamo qui ciò che a voi non aggrada:

abbiamo il futuro
e abbiamo da fare nella nostra terra.

O voi che passate tra parole passeggere

ammassate le vostre illusioni in una

fossa abbandonata, e andatevene.
Riportate le lancette del tempo

alla legittimità del vitello sacro

o al ritmo musicale della pistola
Abbiamo qui ciò che a voi non aggrada, andatevene

Abbiamo ciò che non c’è in voi:

una patria sanguinante

un popolo sanguinante, una patria

adatta all’oblio o alla memoria.

O voi che passate tra parole passeggere,

è giunto il momento che ve ne andiate

e dimoriate dove volete, ma non tra noi.

È giunto il momento che vi ne andiate

e moriate dove volete, ma non tra noi.
Abbiamo da fare nella nostra terra

qui abbiamo il passato

la voce inaugurale della vita,

e vi abbiamo il presente, il presente e il futuro

qui abbiamo questo mondo e l’eternità.
Allora uscite dalla nostra patria

dalla nostra terra, dal nostro mare

dal nostro grano, dal nostro sale

dalla nostra ferita, da ogni cosa.
Uscite dai ricordi della memoria

o voi che passate tra parole passeggere.

Pensa agli altri

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,

non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,

non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,

coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,

non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,

coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso

e di’: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Carta d’identità

Scrivi!

Sono arabo

carta d’identità numero cinquantamila.

Ho otto figli

e il nono arriverà… dopo l’estate.

Ti fa rabbia?
Scrivi!

Sono arabo

lavoro con i miei compagni di miseria
in una cava.

Ho otto figli

per loro dalle rocce

ricavo il pane,

abiti e quaderni.

Non vengo a mendicare alle vostre porte

e non mi abbasso alla soglia della vostra casa.

Ti fa rabbia?
Scrivi!

Sono arabo

sono un nome senza titoli

sono paziente in un paese

pervaso da fremiti di rabbia.

Le mie radici

sono ben salde da prima della nascita del tempo

prima che avessero inizio i secoli

prima dei cipressi, e degli ulivi

e prima che crescesse l’erba.

Mio padre… è della famiglia dell’aratro

non discende da signori

mio nonno era un contadino

senza stirpe, né lignaggio!

Mi ha insegnato l’orgoglio del sole

prima d’insegnarmi a leggere,

e la mia casa è come una capanna

fatta di vimini e paglia:

soddisfatti della mia condizione?

Ho un nome senza titoli!
Scrivi!
Sono arabo
capelli neri
occhi marroni
segni distintivi:
in testa una kefiah fissata dal cordone
e il palmo rugoso come pietra
che raschia quel che tocca.
Indirizzo:
un villaggio lontano, dimenticato
delle strade senza nome
in cui tutti gli uomini lavorano nei campi o alla cava.
Ti fa rabbia?
Scrivi!
Sono arabo

defraudato delle vigne dei miei antenati

e della terra che coltivavo

insieme ai miei figli,

a noi e a tutti i nostri posteri
non hai lasciato nulla

se non queste rocce…

Le prenderà il vostro governo, come dicono?
Allora!

Scrivi
in cima alla vostra prima pagina:

«Io non odio la gente

e non aggredisco nessuno.

Ma se divento affamato

la carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.

Fate attenzione

Fate attenzione

alla mia collera

e alla mia fame!».

Profugo

Hanno incatenato la sua bocca

e legato le sue mani alla pietra dei morti.

Hanno detto: «Assassino!»,

gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere

e lo hanno gettato nella cella dei morti.

Hanno detto: «Ladro!»,

lo hanno rifiutato in tutti i porti,

hanno portato via il suo piccolo amore,

poi hanno detto: «Profugo!».

Tu che hai piedi e mani insanguinati,

la notte è effimera,

gli anelli delle catene non sono indistruttibili,

perché i chicchi della mia spiga che sta seccando

riempiranno la valle di grano.

Promesse della tempesta

Così sia!
Devo rifiutare la morte:
bruciare le lacrime delle sanguinose canzoni
e rendere nudi gli ulivi dai falsi rami.
Se io canto la gioia
dietro palpebre
d’occhi spauriti
è perché la tempesta mi ha promesso vino
ed arcobaleni:
è perché la tempesta ha spazzata via il canto
dei pigri uccelli
e smascherato nell’albero dritto
i falsi rami.

Così sia!
Sarò fiero di te,
piaga della città,
quadro dalle mille luci
nelle nostre tristi notti:
tu mi proteggi dall’ombra
e dagli sguardi odiosi,
quando la via si chiude
al mio approssimarsi.

Canterò la gioia
dietro palpebre d’occhi spauriti:
la tempesta già si leva sulla mia terra:
mi ha promesso vino
ed arcobaleni.