Il virtuale è reale, il reale è virtuale
Negavano tranquillamente, contro ogni evidenza, che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana al pari di quella delle mosche, negavano quella barbarie ben definita, quel calcolato delirio, quell’imprigionamento che portava con sé una terribile libertà nei riguardi di tutto quanto non fosse il presente, quell’odore di morte che istupidiva tutti quelli che non uccideva, negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca d’un forno, evaporava in fumi grassi, mentre l’altra, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno.
Albert Camus, La peste
Vivere in un incubo atomico sembra aver offuscato le nostre infinite possibilità di fare emergere un senso critico. Al contempo, la sola possibilità di un annientamento generale, data dalla presenza dell’energia nucleare, rende palese la brutalità di questo mondo. Immersi in una realtà di cui ormai, più o meno consapevolmente, siamo ostaggio, diveniamo perenni riproduttori dell’abitudine di sopravvivere.
L’accumulazione, la saturazione e il bombardamento di informazioni sovrastano la nostra capacità critica. Una realtà che ci assedia, nei meandri più reconditi di noi stessi.
Più questo incubo ci annichilisce, meno il sogno si spalanca all’orizzonte della nostra sensibilità. E se qualcuno in passato vedeva nel sogno un segno di utopia, sul bordo dell’irreparabile, oggi diventa chiaro che la frantumazione di ciò che sentiamo è data da un mondo che sembra aver già tutto detto e fatto.
Immersi in una realtà così tronfia di sé, la cui eccedenza sta nel virtuale, catturiamo digitalmente tutto quello che abbiamo intorno. Essa è fatta di luoghi virtuali, dove le apparenze, il regno laico della menzogna, non sono solo sullo schermo ma divengono esperienze non certo sensibili, tetri doppioni della realtà. Se tutto è reale, allora il simulacro è la realtà assunta come esperienziale ma che di fatto non è.
L’interiorizzazione della tecnica è inarrestabile. In un mondo dove i rapporti sono sempre più mediati da uno schermo – da quello piccolo di uno smartphone, a quello medio di un computer, passando a quello enorme dell’ultima tv al plasma – siamo passati dalla critica dello spettacolo ad interrogarci su quella della tecnica.
Fra bellezza e disperazione, la critica può ancora essere gesto di rottura con questa abnorme adulazione del presente, in grado di bruciare il mondo con quelle domande vitali e sensibili che la cultura di oggi costringe al silenzio? La tecnica è associata alla cultura più che mai, perché ciò che s’impossessa del mondo ha bisogno di un discorso per reggersi; così la razionalizzazione culturale è divenuta uno dei principali mezzi di alienazione e propaganda.
La cultura, che sottende il discorso tecnico, sembra avere lo scopo di anestetizzare tutto ciò che potrebbe essere espressione del rifiuto. Se la cultura si plasma sull’incessante informazione data in tempo reale, giocando sull’evidenza e non sulla sensibilità, tutto ciò ha l’effetto di appannare la riflessione e costituisce uno dei metodi più sicuri di non conoscenza su ciò che avviene intorno, mentre il falso s’innesta nei nostri sensi azzerando il nostro immaginario. Una realtà in cui l’informazione ha eclissato la conoscenza, in cui non riusciamo più a cogliere i fatti, le idee, gli individui. Quando niente si inventa, ci si accontenta di essere gregari di qualcosa al ribasso mentre il linguaggio si fa approssimazione. Disimparare a sentire vuol dire non saper più scegliere.
Il linguaggio si svuota, ridotto ad un enorme flusso di insignificanza, il cui segno virtuale ha spodestato il corpo vivo. Un linguaggio di sintesi, sempre più aderente ad un mondo che ormai viaggia in rete senza più incontrarsi e guardarsi negli occhi. Una rete che assomiglia a un’apertura senza fine, dove ciò che viene chiamato confronto – fra l’utente e l’individuo – è tutt’al più un artificio totalizzante in atto. Senza più la determinazione di guardare altrove, il mondo induce a rivisitare costantemente ciò che è dato e venduto, occultando la possibilità di negarlo.
La reiterazione ci rende ciechi, al di sotto della realtà ci siamo noi, sotto una pressione esistenziale che fagocita la confusione tra virtuale ed immaginario. Nella profondità emozionale si sta installando, scavando ogni giorno nei nostri sensi, un principio omologante che indica un pluralismo con pochissimi contrari e che sembra darsi una continuità di tempo senza tempo, sempre più totalitario.
Per adattarsi ad un mondo che fa della connessione il suo mantra è richiesta una malleabilità individuale pur di plasmarsi alla realtà. La scommessa del dominio risiede in una nuova forma di stasi: l’abbandono di ogni attitudine critica. Il modello della somiglianza va di pari passo con lo sradicamento del desiderio. Sostituendo l’unicità di ogni individuo con un’identità prestabilita, la proverbiale questione della differenza entra nel marasma di produrre interpretazioni del mondo che servono a impedire di comprendere ciò che abbiamo attorno e ancor più di trasformarlo. Al banchetto delle svariate identità, chi ci rimette è proprio la particolarità irriducibile di ogni persona.
Questa mirata devastazione dei mondi interiori permette a tutti i prodotti di sintesi di divenire qualcosa di incriticabile; una mitopoiesi che fa della riduzione a cosa un mezzo perfetto per esserci nel mondo della connessione. Siamo davanti ad una profusione di pensieri geneticamente modificati dove la ricerca dell’eterno ritorno alla configurazione esistente traccia la vita in idee senza corpi e corpi senza idee.
Oggi la capacità camaleontica di aderire all’esistente è diventata la garanzia principale di non essere superficiali. Chi vorrebbe spiccare il volo verso un altrimenti è tacciato di irresponsabilità dal bigottismo di questa epoca. Abbiamo ancora la presunzione di credere che il nostro corpo ci appartenga, ma oggi è più che mai lontano dall’essere quell’incarnazione con il desiderio, il pensiero e la sensualità. Il corpo è diventato un problema, infatti viene mediato da una meccanizzazione che fa diventare inesistente il suo rapporto con il mondo, immersi come siamo in una umanità che pensa che il corpo non debba più esistere. A chi interessa la diversità se la rete di internet ci rende simili? Omologare lo sguardo sulla realtà è la conseguenza di una cultura tecnica che fa della (tele)chiacchiera, lontano dagli occhi, la fortificazione del Pensiero Unico.
Di quale passione giovarsi se tutto sta dentro la realtà? E se il corpo, ergo noi stessi, sta diventando l’aspetto più ingombrante, ridotto ad una protesi nella virtualità?
La manipolazione in atto non devasta solo i nostri tempi e i nostri spazi: è la nostra possibilità di negare qualsiasi elemento dato a rimanere pietrificata davanti alla realtà.
Possiamo affermare che il virtuale, confrontato col reale, corrisponde alla simbiosi di due elementi che sembrano in contrapposizione, dove il tempo del primo oggettiva lo spazio del secondo. Il virtuale ci conduce in maniera lenta e inesorabile alla liquidazione totale dell’immaginario. Questa violenza subdola si installa nella nostra selva oscura in cui, fino a poco tempo fa, si confrontavano percezione e sogno. Tutto quello che si fa attraverso uno schermo non è che cancellazione del corpo, scomparsa di un tutt’altro da vivere, lento genocidio della presenza fisica, totale snaturamento della reciprocità. Ogni volta che la tecnica produce un’immagine non consente più di toccare con mano la vita, ma solo di simularla.
E se si cominciasse ad abbandonare la credenza tecnica per darsi alla sovversione della fede?
La duplicazione tecnica è il miglior mezzo per sostituire la pericolosa immaginazione con la sicura realtà connessionista. Ecco che il trionfo della civiltà si rende palese nella continua fabbricazione della vita sterile, il cui laboratorio di sperimentazione è il mondo in cui annaspiamo. E allora, se Rimbaud auspicava di reinventare la vita, cosa potrebbe avvenire se iniziassimo a tagliare i fili con la realtà, cioè la virtualità?