Ripresa e Resilienza?

Ormai lorsignori non giocano più sulle parole, non devono neppure fare lo sforzo di travestirle. Non hanno bisogno di ricorrere all’antica lingua di legno di un potere menzognero e censore, così prodiga di eufemismi in grado di anestetizzare qualsivoglia conflitto. Lo dicono chiaro e tondo che la corsa della nostra civiltà verso il baratro non può e non deve essere interrotta, non importa quanti e quali disastri sociali ed ecologici abbia già provocato in passato, quanti ne provochi nel presente e si accinga a provocarne in futuro.
In fondo lo sapevamo, eravamo già stati avvisati. Una celebre signora di ferro inglese l’aveva dichiarato quarant’anni or sono, «non c’è nessuna alternativa» alla cosiddetta società del libero mercato. Un decennio dopo, invitato ad esprimersi in un vertice internazionale sull’ambiente, l’allora inquilino della Casa Bianca ribadì che «il nostro stile di vita non è negoziabile». La questione è chiusa, nulla di cui discutere.
Non c’è quindi di che stupirsi che la parola d’ordine oggi in vigore sia: Ripresa. Ripresa della produzione di merci, della circolazione di merci, dell’acquisto di merci, del consumo di merci. Ripresa del lavoro e della ricerca di un lavoro. Ripresa dell’industria e della costruzione di infrastrutture che alimentino e potenzino l’industria. Ripresa della circolazione del denaro e della sua spasmodica ricerca, per un alto profitto o per una bassa sopravvivenza. Ma poiché è ormai evidente a chiunque che lo stile di vita non negoziabile e senza alternative della società occidentale è destinato a produrre inevitabilmente catastrofi ambientali, pandemie sanitarie, incidenti nucleari… diventa allora di primaria importanza accompagnare questa necessità di Ripresa con l’urgenza di sviluppare e consolidare la Resilienza.
Per definizione, la resilienza è «la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi». Va da sé che è possibile applicare agli esseri umani e ai loro rapporti una caratteristica di cose inanimate solo se si considera una società vivente come una macchina funzionante. Ma è assai istruttivo come qui il termine tecnico venga preferito a quello sensibile.
La resilienza infatti non va confusa con la resistenza. Sebbene anche quest’ultima sia considerata la capacità di sostenere condizioni avverse, il suo significato principale è un altro: è la forza che si oppone, è l’azione tendente a impedire l’efficacia di un’azione contraria. È, come insegna la storia, la lotta contro il nemico. Viceversa la resilienza non contrasta nulla, si limita ad indicare la capacità di non spezzarsi, ovvero di incassare colpi senza reagire.
Quand’è che il concetto di resilienza è uscito dal vocabolario della scienza dei materiali per entrare in quello dell’ideologia dell’adattamento umano alle peggiori catastrofi, diventando così sia una tecnologia del consenso alla realtà esistente (quale essa sia, foss’anche la più ripugnante) che una religione di Stato? Probabilmente all’inizio degli anni 50, quando alcuni biologi al servizio della commissione dell’energia atomica americana studiarono la resilienza degli atolli corallini, e di conseguenza degli esseri umani là presenti, alle radiazioni scaturite dai test atomici nel Pacifico. Da lì sarebbe nata quella «ecologia delle radiazioni» che studia la capacità del vivente di adattarsi alla sua distruzione.
Ecco perché oggi, con la scomparsa dall’orizzonte di ogni possibilità di trasformazione sociale radicale, si fa un gran parlare di resilienza. Perché essere umani diventati cose, e trattati come tali, devono e possono solo imparare ad assorbire, a superare, a rimbalzare ogni insidia, ogni disgrazia, se non vogliono soccombere. Incitare alla resilienza significa quindi incitare a diventare co-gestori della devastazione, rendere naturale – di più, virtuosa – la propria condizione di sopravvissuti. Ciò che ci distrugge e ci impedisce di vivere non va più identificato, criticato, ostacolato, impedito, combattuto: va accettato e attraversato con fatalismo, dotandosi di un appropriato kit di sopravvivenza.
Lo schiavo tartassato che si piega ma non si spezza, che obbedisce e non si ribella, che ormai non contempla nemmeno l’ipotesi della ribellione, e che perciò riprende a lavorare, ignorando gli insulti, assorbendo le frustate, adattandosi alle bastonate, superando ogni sofferenza, un tale schiavo manifesta una notevole resilienza! Questa sua capacità di incassare colpi, magari lamentandosi ma senza mai reagire, da chi può essere considerata una qualità, un merito? Da chi, se non dal suo padrone? Padrone che si vede messo al riparo da ogni accusa di sfruttamento, da ogni protesta, perché una volta dato per non negoziabile e privo di alternative il suo modo di vivere, ecco che tutto diventa una questione di minore o maggiore preparazione. Non è il padrone che deve smettere di sfruttare, frustare e bastonare, è lo schiavo che deve irrobustire la propria schiena. Se vuole continuare a (sopra)vivere, deve imparare ad assorbire gli urti sempre più contundenti della vita quotidiana.
Ecco il reale significato di questi due termini e del nostro rapporto con essi.