Il criterio del numero

Pierre-Valentin Berthier

Questo non è un testo d’oggi e il tempo ha spazzato via così rapidamente ciò che diciamo, scriviamo e facciamo gli uni e gli altri, che si può ormai considerare un testo dimenticato. Eppure sono trascorsi appena pochi anni da quando un noto scrittore ha scritto queste righe su un apprezzato giornale letterario. Dopo tutto, cosa sono pochi anni? Non si continua forse a leggere Platone?
«Il criterio del numero – scriveva il nostro autore – non è casuale. È regola e giustizia. Ogni follia è anarchica e individuale. La società non può essere folle. Altrimenti cesserebbe d’essere società. Temo proprio che la letteratura che afferma il contrario non sia altro, in senso stretto, che letteratura».
Ecco un principio formulato senza limitazioni: la società non può essere folle quando schiaccia l’individuo; folle è soltanto l’individuo che protesta contro la società che lo soffoca.
La società americana da cui è uscita la bomba di Hiroshima e la società tedesca che costruì i campi di sterminio di Dachau e Buchenwald, non erano affatto, e non sono, società folli, dal momento che non hanno mai cessato «di essere società».
Non solo non erano folli, ma in virtù del criterio del numero, che non è casuale, esse erano regola e giustizia.
Poiché – ci avverte il nostro scrittore – è questo il criterio del numero. Così come in tempo di guerra «noi vinceremo perché siamo i più forti», allo stesso modo, in ogni momento, «noi abbiamo ragione perché siamo i più numerosi».
In tal senso, gli spagnoli hanno ragione contro i portoghesi, i francesi contro gli spagnoli, i tedeschi contro i francesi, i russi contro i tedeschi, e i cinesi contro i russi. In tal senso, Ponson du Terrail è uno scrittore più grande di Paul Valéry, poiché ha avuto più lettori. Il suffragio universale a liste multiple proclama di certo la verità del numero, lasciando alle minoranze il diritto e l’onere di esprimere l’errore; ma lo scrutinio a lista unica eleva questa verità ancora più in alto in quanto sopprime ogni opposizione a ciò che è ortodosso, ovvero a ciò che è regola e giustizia.
Perché occorre che la nostra buona coscienza sia turbata e che questo principio – il criterio della verità grazie al numero – ci sospinga come una forza impossibile da contrastare? Forse è solo per fare della letteratura in senso stretto, e certamente una cattiva letteratura: è questa l’opinione del nostro scrittore, il quale, probabilmente ne ha fatta soltanto di buona.
Stare con l’aviatore che sgancia bombe sulla città che dorme, è stare con la «regola e la giustizia». Stare con il refrattario che viene sbattuto in prigione perché ha rifiutato di compiere quello stesso gesto è stare con la «follia anarchica e individuale». Poiché il numero è il criterio della ragione, mentre la minoranza è follia, anche quando è sacrificio, amore e meditazione.
Così ragiona un letterato che si vanta di non fare letteratura.
Eppure sapete bene, sappiamo tutti, che la società può essere ingiusta anche quando è regolare, compatta e numerosa, e che del resto, sia pure giusta, può contenere in sé i germi di una giustizia ancora più alta, germi che la combattono e che essa combatte, poiché le istituzioni dell’uomo sono in costante movimento, e forse in progresso.
Socrate e Gesù, Giovanna d’Arco e Galileo, Sacco e Vanzetti, sono stati regolarmente condannati da società regolari, approvate dal numero, e che tuttavia non erano giuste dato che le società che sono venute dopo, per quanto anch’esse assai ingiuste, hanno rivisto i giudizi, condannato i giudici, riabilitato gli accusati.
Di conseguenza, non sono folli i ribelli «anarchici e individuali» che il nostro autore taccia di demenza. E noi non rigiriamo l’argomentazione contro i carnefici ed i persecutori; nemmeno gli scienziati americani che fabbricarono la bomba di Hiroshima erano pazzi; né i giudici dell’Inquisizione; né i nazisti che bruciavano ebrei nei campi del Terzo Reich. Sarebbe troppo comodo assolvere le società cui appartenevano dichiarandole folli!
Non erano folli, ma non erano giuste. Mentre l’individuo rivoltatosi contro di esse, in maniera anarchica e solitaria, era al tempo stesso giusto e saggio.
Voltaire non ha lasciato condannare Calas senza protestare; Zola non ha lasciato deportare Dreyfus senza proferir parola. Non hanno taciuto col pretesto che i giudizi erano regolari e che la società era giusta, e che non si mette in discussione l’autorità della cosa giudicata quando la procedura ha rispettato la consuetudine e la legge. Hanno preferito elevare una protesta che, pur essendo anarchica e individuale, era nondimeno solenne e fiera, a rischio d’essere sospettati di follia e di passare per dei Don Chisciotte o dei Cyrano.
Certo, sappiamo che l’errore non è la follia: errori oggi riconosciuti come tali hanno avuto un tempo un credito universale presso uomini e società, che non per questo erano società dementi o uomini aberranti. L’uomo e la società di cui è membro possono sbagliarsi. È necessario – su esempio del nostro autore – considerare la società infallibilmente giusta per essere inclini a trattare da folli coloro che insorgono contro determinate clausole, che essi contestano, del contratto che essa vuole imporre loro.
Le più regolari società hanno quindi imperfezioni che derivano da quelle dell’uomo di cui esse sono l’opera. La società, così come la subiamo, ci può piacere oppure no. Se il suo funzionamento ci soddisfa, ciò non significa che sia infallibile né che siamo saggi ad adattarci ad essa; e se ne siamo scontenti ciò non implica che essa sia folle né che noi siamo insensati.
Il carattere augusto con cui il potere adorna i suoi grandi misfatti non basta per farcene ammettere la giustizia, nemmeno quando intere collettività, che non erano folli e la cui responsabilità non potrebbe essere mitigata, ne hanno ammesso la regolarità ed assecondato la perpetrazione.
Fare letteratura in senso stretto è piuttosto appannaggio dei turiferari del Potere, sempre pronti ad aprire discussioni mondane su spregevoli frivolezze invece di protestare contro i crimini che si commettono, ogni volta che il potere colpevole e la società complice operano per oscurare la storia o per opprimere il diritto.
Inchinarsi di fronte al diktat sociale e al fatto compiuto è l’atteggiamento dei «letterati» in senso stretto. La nostra regola e la nostra giustizia non si basano sul criterio del numero per legittimare l’adorazione dei tabù e il riconoscimento degli articoli di fede. Se il numero ha torto e se si è soli, la saggezza della rivolta semplicemente si rafforza con ciò che viene chiamato coraggio. Se ne resta uno solo, bisogna «essere quello». C’è solo «quello» che conta. Folli sono allora coloro che corrono a perdere la loro anima nella vigliaccheria della moltitudine e nella stupidità del gregge.

[liberté, n. 1, 31 gennaio 1958]