Oltre lo steccato

Il potere, quando sa di avere un solido basamento da cui ergersi, pecca quasi sempre d’arroganza. Si lancia, forte della propria forza e della propria “ragione” (che diventa a seconda del momento ragionevolezza o buonsenso, realismo o richiamo all’unità di fronte ad un presunto nemico comune) contro ogni cosa che, seppur in maniera temporanea e transitoria, blocca i suoi piani. Anche contro ciò che, a ben vedere, non ne metterebbe a rischio l’esistenza.
Perché esiste, di fatto, uno spazio recintato che rinchiude ogni anelito, che riassorbe e digerisce ogni tensione trasformandola da rifiuto a collaborazione. Lo steccato della legalità, della politica prima dell’etica, del bilanciamento dei rapporti di forza o degli interessi sociali e quello del consenso intorno alla propria lotta. Questo steccato, costruito negli anni da sindacati, partiti e movimenti politici, questo steccato, che trattiene il gregge tra le loro fila impedendogli di disperdersi ai quattro venti, questo steccato, dicevamo, è anche ciò che dovrebbe rassicurare chi sta al potere riguardo alla traiettoria di certe lotte e di certa rabbia. Lo steccato diventa, a seconda dei momenti e del lato in cui ci si trova, argine o gabbia, confine o discrimine. Finché l’individuo dovrà rapportarsi con un intermediario per esprimere il mondo di desideri e passioni che ha dentro di sé, allora questo mondo verrà svilito in un’arida sequela di punti e commi migliorativi di un contratto, sociale o collettivo che sia, che in realtà altro non è che la pastoia riformista e non sicuramente l’agognata possibilità della libertà.
L’illusione attuale, però, è che la posizione dello steccato sia contrattabile, che un tribunale dello Stato possa difenderlo al posto della forza dell’organizzazione che lo vorrebbe mantenere lì dove stava fino a pochi anni fa. Ma la paura della guerra civile, il clima di unità nazionale che viene alimentato tanto dai venti di guerra che da quelli pandemici e nazionalistici, ha la capacità di trasformare tutto in poltiglia: tanto il linguaggio che le idee. E allora perfino ciò che si trovava nel recinto, inoffensivo proprio perché rinchiuso, diventa in breve violento, ed il potere ed altri corpi intermedi dagli opposti interessi ricominciano, spallata dopo spallata, a restringere lo steccato avversario, ridurne lo spazio e le possibilità. E l’abitudine al disastro, la resa di fronte all’impensabile, ha messo ormai a tacere ogni possibilità di reazione etica. Di fronte al crollo che ci circonda nulla appare qualitativamente diverso tanto da meritare un nostro gesto anche solo di indignazione. Ormai le disfatte si accumulano. La quantità, però, solo per Hegel diventa qualità. Nel mondo in cui viviamo il fardello semplicemente si appesantisce. Sono piuttosto le idee che permetterebbero di disvelare la possibilità di un vivere diverso. E smettere di subire.
Per questo, prima di farsi rinchiudere, occorre fare una scelta. Cercare le energie dentro di sé e saltare, oltre lo steccato, correndo il rischio delle praterie immense e del trovarsi corpo a corpo col nemico, o resistere, con le spalle al muro, sperando che il potere permetta di riguadagnare qualche metro nel campo dei diritti civili e sociali. Chissà quando. Ma d’altronde, potrà mai il sole non sorgere anche domani?