A proposito di donne romantiche

Annie Le Brun

È per comodità che si è parlato e si parla ancora oggi di donne romantiche, sebbene in effetti non esista il genere di «donna romantica». D’altronde, è proprio questo a rendere affascinanti quel manipolo di giovani donne che a mio avviso sapevano, ben prima dell’esortazione di Rimbaud, come reinventare l’amore.
A colpire, in primo luogo, è la diversità dei loro caratteri, la differenza nel loro comportamento: impossibile infatti rinvenire una somiglianza tra la turbolenza di Bettina, la passione di Suzette Gontard, la vivacità di Caroline Schlegel, la disperazione di Karoline von Günderrode, l’innocenza di Sophie von Kuhn, l’audacia di Henriette Vogel… Tuttavia, per quanto diverse possano essere, queste giovani donne hanno in comune una totale mancanza della pretesa di svolgere un ruolo. Non si tratta di auto-annullamento – e il miglior esempio è Bettina, di cui Rilke scriveva: «Attraverso tutte le sue lettere, quella strana Bettina ha creato uno spazio che è come un mondo di dimensioni allargate. Fin dall’inizio si è gettata in ogni cosa come se avesse già superato la sua morte. Ovunque ha impiantato in profondità il suo essere, è diventata parte di esso, e tutto ciò che le è successo era per l’eternità contenuto nella natura…».
Paradossalmente, questa evocazione che si adatta così bene a Bettina potrebbe più o meno adattarsi a tutte le donne del romanticismo, proprio perché nessuna di loro si sforzava d’essere: loro sono. E lo sono intimamente, innocentemente, sfacciatamente, follemente, scandalosamente, tragicamente ma sempre, sempre superbamente.
Ed è in tal senso che sfuggono del tutto al ruolo secondario che è, e soprattutto sarà, riservato alle donne in varie avventure intellettuali. Loro sono il cuore e al cuore del romanticismo, allo stesso titolo dei loro amici, dei loro amanti, dei loro fratelli… Nella tumultuosa e disperata cronaca della liberazione delle donne, non vedo altre figure muoversi così liberamente. Un po’ come se fossero caratterizzate da una leggerezza che poteva solo seguire la libertà. Una leggerezza che il senso comune avrebbe presto ridicolizzato come debolezza. Conosciamo il luogo comune della giovane donna romantica, diafana, evanescente – l’opposto di ciò che sono state quelle giovani donne. Perché la loro leggerezza era la leggerezza dell’eccesso, del gioco giocato in punto di morte, dell’intensità del momento, dell’impazienza di vivere… È la leggerezza della vita restituita a se stessa, spogliata da ciò che la trattiene, da ciò che separa. «È come se venissi spinta in tutto ciò che guardo», avrebbe detto Bettina.
E qui sorgono due domande:
— Quando l’idea femminista aveva appena incominciato ad esistere, come hanno fatto poche giovani donne a rischiare spontaneamente la vita nell’allarmante libertà d’essere ciò che erano?
— Com’è possibile che le femministe contemporanee, che per altro non vedono l’ora di trovare antenate, abbiano fino ad ora letteralmente censurato l’esistenza di queste donne del romanticismo?
Le due domande sono in realtà collegate. E il silenzio che avvolge le donne di cui parlo mi sembra perfettamente logico, dato che non v’è atteggiamento più inconciliabile della dichiarazione di Bettina di «sognare in posizione verticale» rispetto a quella di qualsiasi femminista contemporanea impegnata a certificare le realtà della sua protesta, per non parlare della sua recriminazione. Infatti, come potrebbero persone dedite alla creazione di un’ideologia basata sull’insormontabile differenza tra i sessi riconoscersi in esistenze decise a perdersi o a trovarsi nella ricerca di amanti? Non sono scelte tanto inconciliabili quanto incompatibili? Ed ogni ideologia militante non è intrinsecamente interessata a scongiurare l’«inquietante stranezza» all’opera nei recessi dell’individualità? Non è forse ciò a contrapporre la politica del profitto e la produttività ideologica alla prodigalità poetica della vita? Così la distinzione diventa molto chiara: è il ritrarsi dell’Identico che resiste all’apertura verso l’Altro; o, in altre parole, è l’arruolamento sotto un’uniforme del pensiero, femminista o d’altro genere, che si oppone a un’indomabile diserzione interiore. Una diserzione interiore che può raggiungere la rivolta assoluta di Karoline von Günderrode, la quale poco prima di pugnalarsi in riva al Reno scriveva: «ero piena di una nostalgia che non conosceva l’oggetto del suo desiderio, ero sempre alla ricerca senza trovare mai ciò che cercavo».
Di questa rivolta, senza la quale l’idea di libertà è ridotta ad essere un mero mezzo di sviluppo socio-economico, senza la quale l’amore viene ridotto a debolezza individuale; di questa rivolta, di questa sete di assoluto, non si sente una parola nel discorso femminista contemporaneo, e per quanto mi riguarda questo è il rimprovero definitivo che gli andrebbe fatto. Giacché penso che le donne del romanticismo sapevano come inventare la loro libertà proprio perché avevano in comune anche con alcuni giovani uomini la rivolta assoluta, il feroce rifiuto di adattarsi alla banalità.
Sono inoltre convinta che è questa rivolta in comune – e proprio perché tale – ad aver permesso a Friederich Schlegal di risolvere, in maniera radicale quanto naturale, la questione dell’uguaglianza, auspicando la «completa distruzione dei pregiudizi che hanno stabilito tra i due sessi una disuguaglianza di diritti fatale per chi ne è favorito». Ma è anche la rivolta in comune ad incitare tutti i protagonisti a guardare all’amore come ad uno dei percorsi privilegiati della disperata ricerca dell’individuo oltre se stesso.
Ecco perché alle donne del romanticismo va riconosciuto il merito di avere, nonostante tutto e contro tutto, reinventato l’amore. Perché hanno cercato ciò che le donne non avevano mai cercato prima: l’amore che diventa conoscenza e la conoscenza che diventa amore.