Io non ci sarò

Premessa. Chi scrive non ha mai votato in vita sua, nonostante quasi quarant’anni di reiterate occasioni. Non sono perciò un ex-elettore oramai deluso e disingannato, non sono uno scioperante o un disertore delle urne; piuttosto, un renitente. Non ho mai avvertito il senso, l’importanza, la necessità, l’interesse, il dovere, nemmeno la curiosità di presentarmi a un seggio, non capendo come si possa delegare ad altri il compito di decidere come vivere la propria vita. Non ho avuto bisogno di acquisire un’ideologia rivoluzionaria per arrivare a tale conclusione, la biologia mi è bastata e avanzata, facendomi provare repulsione per qualsiasi partito. E se non ho avuto la tentazione di confidare nel voto ai vecchi tempi della Dc e del Pci, quando le strade erano spesso invase da manifestazioni più o meno combattive e gli animi erano accesi dalla passione politica, figurarsi oggi, nell’era dell’alienazione elettronica e della demenza digitale! Nel migliore dei casi considero il voto un’inutile perdita di tempo, nel peggiore una vera e propria forma di collaborazionismo.
Si sa che in questi giorni che precedono le elezioni del 25 settembre uno spettro si aggira per le sedi di partito del paese, infestando la mente di dirigenti e militanti: lo spettro dell’astensionismo. Per una trentina d’anni, dalle prime elezioni politiche tenutesi nel dopoguerra (quelle dell’aprile 1948) fino a quelle immediatamente precedenti l’annus terribilis dell’assalto al cielo (quelle del giugno 1976), l’affluenza alle urne è sempre stata stabile: maggioritaria, anzi, ultra-maggioritaria (92-93%). La fine di quel movimento di lotta, l’inizio del riflusso e il dilagare dell’anestesia sociale — con l’apatia e la rassegnazione conseguenti — hanno portato al progressivo ed inesorabile declino dell’interesse elettorale. Se alle elezioni del giugno 1979 aveva votato il 90% degli aventi diritto, a quelle del marzo 2018 si è presentato alle urne il 72%. Secondo molti sondaggi anche le prossime elezioni di fine mese confermeranno tale tendenza, per alcuni gli elettori saranno circa il 65%, per altri anche meno.
Si tratta grosso modo di sedici milioni di italiani che non si riconoscono in alcun partito — chi per disperazione, chi per disgusto, chi per diffidenza, chi per qualunquismo, chi per consapevolezza. Ciò spiega il motivo per cui tutti i partiti, grandi e piccoli (ma soprattutto piccoli), si danno un gran da fare in questi giorni per «intercettare» questo malcontento, per persuadere scioperanti e disertori elettorali a sospendere la loro protesta e a rientrare nei ranghi. Gli appelli in tal senso si sprecano, ma non spiccano di originalità: c’è chi rispolvera il grande classico e sollecita ad arginare la destra (perché, la sinistra è meglio?), e chi invita a non mancare a un appuntamento storico che farà da spartiacque (fra cosa, fra il simile e l’identico?).
Il ritornello predominante, quasi ossessivo, in tutti questi appelli verte essenzialmente su due punti: a) disertare le urne è fare il gioco del nemico; b) l’astensionismo non può essere una tattica di lotta, dato che in qualsiasi caso non invalida il risultato elettorale. Argomenti puerili, giacché è fin troppo evidente che: a) è irrilevante chi venga eletto (come per altro dimostrato da questi ultimi anni in cui a governare è stato chi non ha mai preso alcun voto), chiunque sia non potrà fare altro che vigilare sul pilota automatico dello Stato tecno-capitalista – in altre parole: chiunque governi è nemico; b) chi si astiene non lo fa per invalidare il risultato elettorale, vera e propria balordaggine, lo fa perché si rende conto dell’assoluta inanità del voto.
In un certo senso le elezioni sono un rito, il rito della religione democratica. I suoi fedeli lo celebrano periodicamente nella convinzione che si tratti di un evento sociale reale, in grado di svolgere una funzione efficace, di segnare il passaggio da una forma di governo ad un’altra (atta ad esprimere la volontà popolare). Mai come in questo ultimo periodo si è capito che ad essere morto non è solo Dio, ma anche la democrazia. Oggi — in mezzo alle continue catastrofi ambientali, sociali, emozionali, prodotte da questa civiltà che ha solo l’imbarazzo della scelta sulla modalità della sua imminente estinzione — chi volete che continui a crederci? Anche le persone più credulone stanno perdendo la fede, anche loro si accorgono che ciò che veniva considerato un rito essenziale è diventato un patetico cerimoniale. Come si può pensare che ci siano differenze sostanziali fra centro-destra, centro-sinistra e il cosiddetto terzo-polo, correnti interne del partito unico del potere e del mercato? O che i fantomatici «partiti anti-sistema» siano in grado di far uscire il paese dalla Nato, dall’Unione Europea o da qualsiasi altra nefandezza, dando vita ad una classe politica più virtuosa, una magistratura più equa, una polizia più rispettosa, un esercito più gentile, una finanza più etica, una industria più ecologica, una imprenditoria più generosa, il tutto all’interno di uno Stato più sovrano e dall’economia più competitiva? E meno male che siamo noi astensionisti i poveri ingenui o gli utili idioti… Considerato che sono trascorsi 140 anni dall’elezione in Italia del primo deputato anti-regime (l’ex-anarchico poi socialista Andrea Costa), e preso atto della fine di coloro che solo pochi anni fa sono entrati in massa in Parlamento con un apri-scatole in mano, mi sembra si possa tranquillamente sputare su queste stolte e presuntuose illusioni.
Volete sapere perché tutti i partiti lanciano disperati appelli al voto? Perché partecipare alla celebrazione di un rito significa confermare l’appartenenza del partecipante alla comunità rituale, che grazie a quel rito persiste e si riproduce. Chi assiste alla messa, ad esempio, non è tenuto a ricevere l’eucaristia; ma con la sola presenza conferma e ribadisce la propria appartenenza alla comunità cattolica. Allo stesso modo chi va a votare non è tenuto a deporre una scheda valida nell’urna; ma con la sola presenza conferma e ribadisce la propria appartenenza alla comunità statale, che attraverso le elezioni persiste e si riproduce. Il padrone chiama, lo schiavo accorre: tanto basta per perpetuare la servitù.
L’astensionismo in sé non mette in discussione il governo, certamente. Mette però in discussione il consenso su cui questo governo afferma di appoggiarsi, quel consenso di cui ama vantarsi per legittimare le proprie decisioni. Se l’affluenza alle urne fosse veramente irrilevante, perché tanto affannarsi per scongiurare l’astensionismo? Perché, come amano ripetere gli esperti, esso «corrode alla base i fondamenti democratici della società civile». Strappare il paravento dietro cui si nasconde il totalitarismo moderno è un passo necessario per identificarlo, è un passo necessario per aprire crepe nelle sue fondamenta.
D’altronde renitenti e disertori, con la loro scelta di non mettere (più) piede in caserma, sanno di non porre fine con ciò al militarismo, alla produzione di armi, alla sete di dominio dei vari potenti. La guerra continuerà anche senza di loro. E allora? Si risponde innanzitutto alla propria coscienza, rifiutandosi di rendersi complici del massacro. Si è consapevoli che per fermare la guerra occorre altro, ben altro, ma ciò non significa affatto che quella scelta sia errata. Anche perché questo ben altro che occorrerebbe realizzare non si può nemmeno immaginare finché si continuerà a scattare sull’attenti, ad obbedire agli ordini, a marciare e marcire.