La nemesi della medicina

Ivan Illich

Dopo aver letto Nemesi medica, cinque luminari del mondo medico tedesco hanno avviato un dibattito con Ivan Illich. Si tratta di Harald Bräutigam, ginecologo di Amburgo, dei professori Hans Schäfer, Thure von Uexküll e Hans-Georg Wolters, e di Hans Tons, direttore della Federazione delle casse malattia. Questo dibattito, a tratti molto vivace, è stato organizzato e registrato dal settimanale di Amburgo Die Zeit, che lo ha pubblicato integralmente il 18 aprile 1975. Qui di seguito i passaggi principali.

Illich: Si dice che un essere sia sano quando è in grado di affrontare in modo indipendente il mondo che lo circonda. Nel caso dell’uomo, sostenere che un individuo è in buona salute significa che è capace di plasmare le condizioni provenienti dall’esterno per farle corrispondere alle sue esigenze interiori. La salute è quindi indice del livello di autonomia e di capacità politica in grado di formare il mondo circostante.
Quando, per ogni minima sua attività, l’individuo dipende sempre di più dalle istituzioni; quando la salute tende a diventare un adattamento dell’individuo a un mondo di interessi e di richieste professionali e amministrative, arriva inevitabilmente il momento in cui la salute si deteriora.

Wolters: È possibile fermare questa evoluzione? Più una società diventa complessa, più per forza di cose cresce la sua divisione del lavoro. Questo vale anche in medicina. Dubito quindi che sia possibile cambiare fondamentalmente l’istituzione medica nel senso di attivare la capacità degli individui di guarire da soli.

Illich: Ciò che mi interessa nell’analisi della medicina è mostrare con un esempio concreto come una divisione del lavoro che oltrepassa determinati limiti produca risultati contrari al suo scopo. Ci troviamo attualmente in una fase in cui emergono specifiche contro-produttività, vale a dire che le tecniche messe in atto producono esattamente l’opposto di ciò che si presumeva avrebbero apportato. Quando, ad esempio, la costante accelerazione della circolazione diventa una causa di perdita di tempo, o quando il programma nascosto del sistema educativo ha un effetto che istupidisce, o quando la medicina ha effetti nocivi, che si definiscono iatrogeni perché causati dalle stesse cure mediche, in tutti questi casi abbiamo a che fare con quella che chiamo una contro-produttività specifica. La contro-produttività specifica della medicina è una di quelle che si lasciano meglio evidenziare. La distribuzione delle cure ha un carattere amministrativo e istituzionale sempre più spinto, genera una dipendenza crescente degli individui: è sempre più difficile rimanere responsabili della propria salute – non si può più partorire, guarire o morire in casa propria. L’accesso ai farmaci diventa monopolio dei soli professionisti autorizzati che minano la fiducia che le persone potevano avere in altre forme di placebo. In breve, la volontà di prendersi cura di sé viene paralizzata.

Die Zeit: La contro-produttività, per usare la sua espressione, è l’effetto di una legge generale o di un abuso commerciale di invenzioni in sé positive?

Illich: Vi vedo una legge generale che formulerò come segue: per tutti gli scopi importanti che si dà una società, sono in atto due modalità di azione. Nell’ambito del traffico, ad esempio, la mobilità è il risultato, da un lato di una locomozione autonoma, dall’altro dei mezzi di trasporto. Allo stesso modo, il livello di istruzione dipende da un lato da ciò che gli individui imparano da soli, per curiosità, giocando e divertendosi, dall’altro da ciò che viene loro insegnato a scuola.
In tutti i campi, la realizzazione di uno scopo sociale dipende dalla sinergia di queste due modalità. La società le istituzionalizza entrambe: da un lato, presentando modelli di comportamento autonomi, dall’altro, pianificando il rifornimento industriale di merci o servizi. Quando la dipendenza degli individui nei confronti delle forniture industriali supera una certa soglia, la loro produzione autonoma di valori d’uso risulta svalutata; e anche il loro ambiente viene modellato in modo che la produzione autonoma non vi trovi più spazio. In materia di trasporti, ad esempio, il modo eteronomo (ovvero il ricorso a mezzi industriali di trasporto) ha estromesso il modo autonomo che consiste nel muoversi da soli. Per me non si tratta in alcuna maniera di preconizzare, alla maniera dei Romantici, un «ritorno alla natura», nemmeno di condannare la tecnologia; si tratta solo di fare la critica politica della tecnica e di constatare che esiste un intimo legame tra la tecnologia e la dimensione degli strumenti, da una parte, e le condizioni sociali di sfruttamento, dall’altra.

Bräutigam: Qual è la sua definizione di salute?

Illich: La salute è determinata dalla capacità posseduta da un essere autonomo di far fronte al mondo circostante.

Bräutigam: Ma la salute dipende anche dalla conoscenza di ciò che è necessario alla conservazione della salute – quindi dal sapere. Ne sappiamo molto più di prima sui fattori che fanno ammalare…

Illich: … fino al punto in cui una professione ha il monopolio legale di definire le malattie e i malati, e un numero crescente di altre professioni sono incaricate di eseguire trattamenti prescritti dai medici. Ciò che conta per me è il diritto dell’individuo stesso di dichiararsi malato. Si tratta di individualizzare di nuovo, per quanto possibile, la definizione di malattia. Laddove è stato riconosciuto agli operai – entro certi limiti, e almeno in via sperimentale – il diritto di dichiararsi malati senza presentare un certificato medico, la frequenza delle malattie è curiosamente diminuita, non aumentata.

Wolters: Tutta la questione è sapere se ciò sia fattibile. È un dato di fatto che, qui come altrove, sono i medici stessi a fornire la definizione di salute. Ma fino a quando i medici non dichiareranno, in un modo o nell’altro, che determinate condizioni abitative, ad esempio, favoriscono la malattia, nulla di fondamentale sarà cambiato. La questione, infatti, è sapere se ognuno è in grado di riconoscere le condizioni abitative più favorevoli alla propria salute. La persona media non è capace – e non lo sarà mai – di riconoscere se, per una determinata malattia, alcuni farmaci abbiano più effetti negativi che positivi. In altre parole: è anche solo immaginabile che la dipendenza di ciascuno possa ancora essere soppressa?

Illich: Le rimando la domanda: esiste un rapporto tra la salute e la possibilità di scelta autonoma? Possiamo anche solo immaginare la salute quando l’autonomia decisionale è ridotta a zero? Non abbiamo allora a che fare con una società di pazienti? Il mondo non viene allora trasformato in un’enorme sala d’ospedale nient’affatto diversa da un’aula scolastica o da un campo di concentramento?

Schäfer: Ogni farmaco ha per forza di cose degli effetti collaterali. Si può perfino dimostrare che il medicinale più attivo abbia anche gli effetti collaterali più potenti. Man mano che i farmaci si perfezionano, gli effetti collaterali possono diventare dominanti e la nocività superare l’utilità. Di fatto, numerosi fattori rendono l’uomo più malato oggi del passato. Ogni medico lo sa. Ma questa è solo una verità parziale – un’eresia – che, se rapportata all’insieme, è falsa. Ci si può domandare se l’utilità della medicina giustifichi l’enormità del suo costo. La mia risposta a questa domanda sarebbe negativa. Ma non possiamo negare che la medicina sia utile. Chiunque sia stato gravemente ammalato e sia stato curato da un bravo medico lo sa. Inoltre, è possibile dimostrare statisticamente che, nel complesso, la medicina salva vite umane. I fattori criticati da Illich sono fattori sociali.

Tons: Dubito che le affermazioni del signor Illich corrispondano alla realtà. Sono amministratore della previdenza sociale e vorrei partire dal concetto di malattia così come noi lo intendiamo. Per noi, è malato chi si sente tale. Ha il diritto di andare dal medico a nostre spese.
La giurisprudenza non ha smesso di ampliare il concetto di malattia nel corso dei decenni trascorsi. Secondo la giurisprudenza federale in materia sociale, ci sono malattia e necessità di cure mediche ogni volta che un individuo devia dalla norma di persona in buona salute, ogni volta che una cura medica può far sperare in un’attenuazione della malattia, un sollievo dalla sofferenza, una conservazione della capacità lavorativa. Ora, ancora all’inizio degli anni Trenta, i mali della senescenza erano da noi ritenuti le conseguenze di un’evoluzione naturale che non doveva essere considerata come una malattia e non necessitava di cure mediche. Oggi accordiamo le cure agli anziani, e in particolare ai pensionati.
Anche le malattie congenite vengono ai giorni nostri trattate prima. Fino al 1950, un bambino nato con un’anca lussata aveva diritto a un’operazione solo se sofferente per il forte dolore, cioè, in molti casi, intorno ai dodici anni. La giustizia federale ha successivamente ammesso l’assurdità di questa posizione. È così che il concetto di malattia ha continuato ad essere ampliato, e questo spesso nonostante la resistenza delle casse di malattia. Perché il costo è altissimo: durante il primo decennio di assicurazione sanitaria – introdotta qui da noi nel 1883 – avevamo 75 certificati di malattia all’anno ogni 100 assicurati. Nel 1910 eravamo a 125 certificati, nel 1928 a 250. Dopo il 1945 arriviamo a 350 certificati e, attualmente, siamo a 650 certificati all’anno ogni 100 assicurati.
Il fatto che i pensionati e la famiglia dell’assicurato siano ormai coperti dall’assicurazione non è ovviamente estraneo a questa crescita vertiginosa. Ma anche le esigenze di ognuno sono aumentate. In un certo senso, incoraggiamo gli assicurati a diventare più esigenti facendo loro acquisire più familiarità, nelle nostre pubblicazioni, con la medicina preventiva e la diagnosi precoce. Abbiamo smesso di colpevolizzare e giudicare male gli assicurati che si ammalano frequentemente, perché abbiamo riconosciuto la disumanità e anche la falsità di un simile atteggiamento: esaminando più da vicino i casi di malattie ricorrenti e mal definite – ad esempio i dolori intestinali – abbiamo constatato che questi disturbi erano molto spesso legati al posto di lavoro o alla situazione familiare e che, mostrando una reale comprensione per queste persone, si può far cessare il loro assenteismo.

Uexküll: Mi sembra che le osservazioni del signor Tons forniscano una piena conferma della tesi del signor Illich. Perché mostrano proprio la medicalizzazione crescente della società: si comincia affrontando i problemi più urgenti e, man mano che la medicina sviluppa nuove tecniche, nuovi problemi altrettanto urgenti nascono dai disturbi della senescenza, dai disturbi congeniti, poi dalle nevrosi e ora dalla terapia familiare. C’è qualcosa di inquietante in questa estensione della portata delle responsabilità della medicina a tutto ciò che non va nelle nostre società; da un lato abbiamo la medicalizzazione dei problemi sociali e, dall’altro, l’industrializzazione della medicina da parte della società industriale.Il risultato di questa industrializzazione della medicina è che il medico è investito dall’istituzione mentre il paziente è ancora una volta ridotto ad oggetto, continuando ad essere privato di ogni responsabilità. Tutte le proposte che vengono fatte per arginare l’esplosione delle spese mediche tendono a negare al paziente l’accesso alle cure, o a rendergli questo accesso più difficile.
Gli esempi non mancano. Basti pensare che è quasi impossibile organizzare le diverse discipline della medicina specialistica in modo che diventino accessibili al paziente che ne ha davvero bisogno. I medici si specializzano in questo o quell’organo mentre le malattie non contano. Quasi nessun paziente soffre ad un singolo organo, cosa che fa sì che il suo male non sia di competenza di nessuno specialista. C’è tutto un elenco di malattie sviluppatesi in seguito a diagnosi errate dovute ad un’eccessiva specializzazione. Alla domanda: «come organizzare cliniche in cui cooperino gli specialisti?», non abbiamo trovato risposta.
Dovremmo anche ricordarci che il medico è un interlocutore per il paziente e che il nostro compito è di portare il paziente, grazie alle nostre spiegazioni, non solo a interessarsi ed essere parte attiva nella cura della propria malattia, ma ad assumersene la responsabilità.

Bräutigam: Mi chiedo se quello che dice il signor Illich sulla «hybris» [dismisura, in greco] medica e sui disturbi iatrogeni non si applichi esclusivamente al caso delle persone anziane che rifiutano la realtà della morte e, per di più, chiedono alla medicina di liberarle dei dolori e dei disagi che derivano dalla loro età. Viceversa, non vedo alcuna «hybris» nel fatto che un paziente sofferente di insufficienza renale sia collegato a un rene artificiale che può guarirlo.

Illich: Una delle manifestazioni fondamentali della «hybris» medica è la resistenza che si incontra, perfino in una discussione come questa, quando si mette in discussione l’efficacia della medicina. È significativo che al centro di questa discussione ci sia la questione di sapere, non in quale misura l’atto medico sia efficace, ma fino a che punto tutti ne abbiano diritto, come se tale atto – si tratti di diagnosi o di terapia – fosse un fine in sé. Ma che ne è dell’efficacia della medicina? Prendiamo l’esempio del cancro: per quanto precoce possa essere stata la diagnosi, quale che sia l’intervento medico o l’assenza di intervento, è impossibile dimostrare che l’aspettativa di vita del paziente ne sia stata aumentata o la sua sofferenza (ammesso che possa essere misurata) diminuita.
È un po’ lo stesso per le persone che hanno avuto un infarto: se, per lo stesso tipo di infarto, confrontiamo coloro che sono stati curati a casa con quelli che sono stati inviati in un’unità di terapia intensiva, vediamo che il tasso di sopravvivenza dei primi è leggermente superiore. Non potremmo finalmente occuparci dell’efficacia degli interventi medici? Ma non appena chiedo quale sia il tasso di sopravvivenza, e non il tasso di mortalità, delle donne con un cancro all’utero, a seconda che siano state operate o meno, o sottoposte a radioterapia, non ricevo alcuna risposta.

Schäfer: È vero, non abbiamo un mezzo per misurare l’efficacia della medicina. Ma a mio avviso, tra gli argomenti che attualmente la agitano, quello più inquietante è una teoria ben affinata dei placebo. Chiunque vi abbia riflettuto sa che in medicina vi è una buona dose di magia. Questa incontestabile affermazione non vuole essere un attacco alla medicina, perché chiedo tosto: se questa funzione magica non fosse esercitata dalla medicina, chi potrebbe esercitarla? Poiché è evidente che gli uomini hanno bisogno di una certa magia. Fin dalle sue origini, la medicina ha sempre avuto questo duplice aspetto razionale e magico.

Wolters: Senza spingermi così in là come fa lei, le concedo che le statistiche di cui disponiamo non ci consentono di farci un’idea completa dell’efficacia di un sistema sanitario, o anche solo di un particolare medico. Nondimeno, la medicina ha ottenuto tutta una serie di puntuali successi. Certe malattie sono state eliminate. Probabilmente questi successi sono stati pagati con danni iatrogeni e non siamo in grado di fare, come bisognerebbe, il bilancio dei successi e dei danni attribuibili alla medicina.La medicina contiene molta inutile magia. Questo è inaccettabile. Quando il medico non considera il paziente un interlocutore, si comporta da mago. Bisogna allora reagire. D’altro canto, c’è naturalmente una magia necessaria che si basa sull’evidenza che molte malattie, se non tutte, siano scatenate da fattori psichici o psicosociali. L’effetto placebo così come l’efficacia curativa del consulto provengono da questo.

Bräutigam: Tornando al cancro al seno, signor Illich, la nostra esperienza clinica ci ha insegnato che con una diagnosi precoce c’è un’aspettativa di vita dell’80-85%. Lo stesso vale per il cancro al collo dell’utero. Per le malattie della senescenza non è statisticamente dimostrato che l’entità delle spese sia giustificata dalla loro utilità. Ma questa prova non manca di certo per quanto riguarda le malattie che richiedono un intervento chirurgico: ulcera allo stomaco, appendicite…

Illich: … che si opera fin troppo, in Germania come in Canada.Bräutigam: Può darsi. Ma l’appendicite non operata porta inevitabilmente alla morte.

Wolters: Il fatto che le operazioni di appendicite siano sette volte più frequenti in Germania che negli Stati Uniti permette di concludere che l’operazione sia inutile laddove è effettivamente indicata?

Illich: Sulla base delle statistiche complessive a cui mi riferisco, è possibile dimostrare che, con i mezzi esistenti, la diagnosi precoce o la terapia non consentono di aumentare né l’aspettativa di vita né le possibilità di sopravvivenza di persone affette da cancro al seno, ai polmoni o al collo dell’utero.

Bräutigam: Questa affermazione non ha fondamento. Per dimostrarla, dovrebbe trattare un certo numero di persone affette da cancro al seno e non trattare delle persone con la stessa condizione. È impossibile. Non può lasciare senza cure un cancro al seno diagnosticato in fase precoce.

Illich: C’è una cosa che si può fare sicuramente: si può contare il tasso di sopravvivenza delle persone a cui la diagnosi è stata fatta in uno stadio precoce, in uno avanzato e in uno tardivo. Poi si possono determinare le possibilità di sopravvivenza di persone sottoposte a chirurgia, radioterapia e chemioterapia. E una volta fatto tutto ciò, si arriva alla conclusione che le possibilità di sopravvivenza siano ovunque le stesse, qualsiasi sia stato il trattamento e in qualsiasi fase – precoce, avanzata o tardiva – sia stato avviato.

Die Zeit: Una domanda molto personale, signor Illich: se una sua parente scoprisse di avere un cancro al seno, le consiglierebbe di farsi operare oppure no?

Illich: Le direi che faremmo meglio a fare un viaggio nelle isole greche. Eventualmente, le consiglierei di curarsi per alleviare il dolore, ma solo da un medico che sappia come ridurre i dolori terminali.

Uexküll: Abbiamo bisogno di una misura dell’efficacia medica affinché il paziente possa decidere con cognizione di causa.

Wolters: Ci sono ambiti in cui la medicina è efficace, altri in cui non lo è ed altri ancora in cui ci sono dubbi. Io mi oppongo solo alla frettolosa conclusione che le procedure mediche e i sistemi sanitari siano privi d’efficacia.

Illich: Non ho mai detto questo. Ma occorrerebbe evidenziare che i medici, in particolare grazie alla loro specializzazione, possono indebolire la salute o addirittura far ammalare. Ciò significa che interi rami della medicina possono essere parte interessata di una trasformazione patogena del modo di vivere. Il sistema medico assomiglia a quello delle indulgenze: si dà del denaro nella speranza di comprare la propria salvezza; ma la salvezza così come la salute non sono certe.

Die Zeit: Lei cosa propone?

Illich: Un approccio scientifico globale, al posto di discussioni ideologiche di dettaglio. Per cominciare, nei paesi industrializzati ritengo sia possibile un nuovo atteggiamento delle persone nei confronti della medicina. Non ho altro sistema da offrire. Per me, si tratta di determinare cosa chiediamo attualmente alla medicina, cosa stiamo facendo e cosa diminuisce necessariamente la salute delle persone.
Credo di aver mostrato che i medici vengono formati al fine di una «incompetenza specialistica». Da una ricerca comparativa, risulta che nel 1950 gli studenti rappresentavano il medico nel ruolo di eroe della cultura; nel 1970, lo vedevano come un marziano o un Dracula, insomma un essere enigmatico e inquietante. È sul carattere enigmatico del comportamento medico che vorrei incentrare la discussione. Non per proporre soluzioni alternative né per porre la questione del costo – qual è il giusto prezzo dell’immaginazione? – ma per chiedere quale rapporto ci sia tra l’immaginazione, gratuita per definizione, e quella che viene prodotta ad un costo troppo elevato?
Vorrei discutere i diversi metodi che, entro certi limiti, cercano di far riavere al pubblico una medicina che gli è sfuggita:
1) Superato un certo punto, gli effetti collaterali indesiderati del trattamento medico-farmaceutico prevalgono sugli effetti desiderati. A partire da un certo livello di «medicalizzazione», i danni iatrogeni non possono più essere riparati dalla medicina, né, a fortiori, evitati. Quanto a sapere quale sia questo livello, è un’altra questione.
2) Si parla molto oggi di incoraggiare i pazienti ad organizzarsi in modo da riprendere il controllo di ciò che viene loro prescritto. La medicina ha bisogno di una sorta di Ralph Nader. I primi semi di questo «naderismo» si stanno già manifestando in Europa. Negli Stati Uniti, la causa di decesso più probabile per i bambini sotto i sei anni è accidentale; e il luogo più probabile di una morte accidentale è l’ospedale pediatrico. Questo emerge dalle statistiche ufficiali. Negli Stati Uniti, il 7% di tutti i pazienti curati negli ospedali ha chiesto un risarcimento per danni. Se, a seguito di una sentenza, queste richieste dovessero essere soddisfatte, costerebbero all’incirca l’intero budget sanitario degli Stati Uniti.
I medici formano una corporazione separata, dotata del dovere di autonomia. Questo dovere, che la società ha loro conferito, consiste nel determinare quale debba essere l’azione del medico. I medici sono riusciti a dare al proprio campo di azione una portata illimitata. Solo loro possono legittimare una qualsiasi deviazione dalla norma sociale. Nella nostra società, una deviazione è legittima solo quando un medico la descrive come una malattia. Pur mantenendo il monopolio di decidere chi è malato e chi non lo è, il medico si scarica di parte del proprio compito affidandolo ad assistenti tecnici, pedagoghi, ecc., che devono assumere funzioni terapeutiche.
Negli Stati Uniti, è stato constatato che circa il 15% di tutti i bambini di età inferiore ai quindici anni ha subìto un piccolo danno cerebrale alla nascita.

Bräutigam: Un uomo moderno non può sopportare d’essere stupido; deve essere stato traumatizzato alla nascita.

Illich: Ciò significa, per esempio, che il medico spiega al maestro perché un bambino sia dislessico: non per stupidità, ma perché soffre di legastenia – quindi perché è malato. Il bambino deve essere aiutato in modo speciale e all’improvviso tutti hanno quella malattia, perché tutti vogliono essere aiutati. Così come, in questo esempio, un’incapacità (che sappiamo peraltro essere socialmente e culturalmente condizionata) viene travestita da malattia per diventare legittima, allo stesso modo negli ultimi quindici anni la malattia è diventata la sola forma legittima di devianza sociale. Un altro metodo per arginare l’invasione medica è il tentativo di legittimare nuovamente forme di cura non tradizionali, non scientifiche o non occidentali, dall’agopuntura all’omeopatia. Ma se si moltiplicano in questo modo le definizioni dottrinali delle malattie e dell’essere-malato, si rischia di arrivare a una medicalizzazione ancora più spinta della salute. Le riforme della medicina non possono che avere un’utilità limitata. Se non vanno di pari passo con l’analisi pubblica delle possibilità di guarigione offerte dai diversi metodi di cura, si arriva ad una totale medicalizzazione della società.

Uexküll: Siamo ancora incapaci di dire quando la medicina comporti dei danni, quale dei suoi sviluppi porti a problemi impossibili da gestire. Questo tipo di ricerca deve essere condotta apertamente se si vuole convincere il pubblico. Un piccolo esempio: abbiamo analizzato l’uso del tempo dei medici in un centro ospedaliero. Risultato: su undici ore di attività, il medico dedica al contatto personale coi pazienti, ivi compresa l’anamnesi [l’insieme delle informazioni fornite dal paziente al medico], un totale di quattro minuti e mezzo al giorno. Vorrei chiedere al signor Illich se la sua critica è rivolta alla medicina in generale o, essenzialmente, alla medicina tecnologica. Se la salute è la capacità di far fronte all’ambiente, l’attuale medicalizzazione non è solo negativa. Prendiamo l’esempio del bambino dislessico: invece di rimproverarlo di essere pigro o incapace, sono obbligato a cercare ciò che, nel suo passato, ha portato quel bambino a non poter ottenere a scuola i risultati che gli sono richiesti. Ritengo sia positivo pensare che il fallimento non sia colpa del bambino, ma che la psicoterapia possa venirne a capo.

Illich: Tutto dipende da quale angolazione vediamo quel bambino. Il pericolo è che la nostra società sia stata organizzata in modo tale che chi non può imparare a leggere non possa trovarvi posto. La mia critica è rivolta alla proliferazione dei bisogni e alla smania terapeutica che si manifestano attraverso la mania per lo sviluppo, la mania per la salute, la mania per l’educazione. E con mania educativa intendo la convinzione del pedagogo che si apprenda meglio seguendo dei corsi e un insegnamento rispetto ad imparare da soli, grazie al contatto con la realtà e la pratica. E chiamo mania per lo sviluppo la convinzione di europei e nordamericani di dover assolutamente dare il loro contributo al miglioramento del livello di vita della Colombia. Si tratta di una sorta di incurabile rabbia missionaria, a carattere quasi religioso. La mania terapeutica in senso proprio, invece, è la convinzione che sia meglio conferire e imporre agli individui la capacità di adattarsi a compiti socialmente predeterminati invece di dar loro la possibilità di lasciar diffondersi la loro diversità in una società abbastanza elastica da accettarla.

Wolters: Secondo lei, uno dei compiti della politica è creare condizioni in cui ogni individuo venga accettato per se stesso, qualsiasi siano le sue peculiarità, cosa che presuppone una trasformazione del sistema di valori.

Illich: Per quanto è possibile.

Wolters: Ma la politica non dovrebbe avere anche il compito di permettere agli individui dalle peculiarità riconosciute e accettate di sbarazzarsi della loro peculiarità o di acquisirne un’altra? Quindi di imparare a leggere? È questa la giustizia sociale che si ottiene, nel nostro esempio, grazie alla medicina.

Illich: Entro certi limiti. La salute è sempre stata il fine di qualsiasi cultura o civiltà. E ogni cultura definisce la sua forma di salute. Ora, la tecnologia medica importa nei paesi poveri nozioni specifiche di ciò che è la salute o la malattia; e ovunque la tecnologia della medicina moderna prenda piede in modo imperialistico, le forme di culture con una diversa nozione di salute non possono che collassare.
Da noi, se si è disposti ad investire senza contare nella tecnologia sanitaria, senza interrogarsi sull’efficacia o la nocività dell’espansione della medicina, è perché questa adempie, oltre alle sue funzioni tecniche, a un numero crescente di funzioni sociali non tecniche: giustizia sociale, consolazione pseudo-religiosa, ecc. Per come è attualmente organizzata, da impresa sociale la medicina è diventata un rituale che crea i propri miti. Non è solo la tecnologia sanitaria – sono anche, seppur a un livello diverso, i miti medici ad avere effetti negativi sulla salute.
Primo mito: il dolore è inutile o per essenza malsano. Ora, se la salute è la capacità autonoma di sottomettere coscientemente le condizioni esterne ai bisogni interni, è essenziale, è salutare provare un malessere o una sofferenza di fronte a determinate condizioni. Senza malessere né sofferenza, lo sforzo tendente a cambiare le condizioni circostanti non varrebbe la pena. La salute quindi presuppone una certa capacità di sopportare il dolore o il malessere.

Die Zeit: Bisogna quindi sopportare il mal di testa.

Illich: No, si può prendere un’aspirina, non ho nulla da eccepire. Ciò che intendo dire è che, se non si riuscisse a sopportare alcun malessere, si sarebbe morti oppure gatti lobotomizzati. Sono contento che disponiamo di sempre più mezzi tecnici per eliminare dolori insopportabili, che d’altronde sono sempre più spesso di origine iatrogena. Ma il modo in cui l’uomo si è sviluppato per esercitare un controllo cosciente sul mondo circostante, tale modo presupponeva la capacità di sopportare il dolore.

Die Zeit: Siamo forse diventati troppo delicati?

Illich: Non solo. Nessuna società è a corto di analgesici per combattere il dolore. Ma nessuna società ha limitato quanto la nostra il libero accesso a quei sedativi: abbiamo conferito ad una professione l’incarico di alleviare il dolore.

Die Zeit: È favorevole ad alleviare il dolore?

Illich: Assolutamente e radicalmente, decentralizzando il libero accesso ai sedativi e anche ai mezzi che consentano il suicidio.

Die Zeit: È contro il monopolio sanitario di dar sollievo al dolore?

Illich: Da un lato sì. Dall’altro, sono contro il mito secondo cui l’eliminazione del dolore debba essere affidata ad ogni costo ai medici – anche a costo della salute. Più la medicina imbocca questa strada, più ritiene che le sofferenze, i malesseri, le angosce di ogni genere siano di sua competenza e abbia il compito esclusivo di porvi rimedio ad ogni costo, più legittima l’ambiente di vita che attualmente esiste ed è socialmente modellato: essa diventa l’alibi di tutti i conservatorismi.
In Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Francia, due consulti su tre terminano oggi con la prescrizione di un neurolettico, cioè di un farmaco che agisce sul sistema nervoso centrale. Nel corso dei recenti colloqui commerciali tra la Repubblica federale tedesca e la Cina, i tranquillanti erano in cima alla lista dei prodotti acquistati dai cinesi.
L’importante, per me, è mostrare come il mito che solo il medico possa riconoscere, definire e curare le malattie porti alla medicalizzazione di condizioni e comportamenti che forse sono reazioni sane contro uno stato di cose che non lo è. Gli uomini finirebbero per ribellarsi contro questo stato di cose se il medico non fosse lì a spiegare che non è il loro ambiente ad essere insopportabile, ma il loro organismo ad essere debole e bisognoso di cure.

[Die Zeit, “Nemesis der Medizin“, 18 aprile 1975]