«Ed ecco a voi…»
Neil Postman
Quello che accade è che la TV altera il significato di «essere informati», creando una specie di informazione che sarebbe più giusto chiamare disinformazione. Uso questa parola quasi con lo stesso significato che danno ad essa gli agenti della CIA o del KGB. Disinformazione non significa falsa informazione. Significa informazione sviante – spostata, irrilevante, frammentaria, superficiale –, significa informazione che crea l’illusione di sapere qualcosa, ma che di fatto allontana dal sapere. Non intendo affermare che il telegiornale induca deliberatamente a privare gli americani di una comprensione coerente, contestuale del loro mondo. Intendo dire che quando le notizie sono trattate alla maniera di un divertimento, il risultato non può che essere questo. Sostenendo che il telegiornale diverte ma non informa, dico qualcosa di molto più serio che non se affermassi che siamo privati di informazioni autentiche. Abbiamo perso il senso di che cosa significhi essere bene informati. L’ignoranza può sempre essere corretta. Ma che fare se si scambia l’ignoranza per conoscenza?
Ecco qui un esempio impressionante di come siamo scombussolati da questi metodi. Il 15 febbraio 1983 il New York Times pubblicava un articolo dal titolo: «Le inesattezze di Reagan richiamano meno l’attenzione».
L’articolo incomincia in questo modo:
«I consiglieri del presidente erano soliti allarmarsi di fronte alle critiche che Reagan desse resoconti manipolati e svianti della sua politica e in generale degli affari correnti. Pare che non succeda più.
In realtà, il presidente continua a fare affermazioni discutibili dei fatti, ma i notiziari non se ne occupano più così ampiamente come una volta. Secondo l’opinione dei portavoce della Casa Bianca, il minor numero di servizi dedicati all’argomento rispecchia il minor interesse del pubblico (Il corsivo è mio)».
Questo articolo non vuol essere una notizia, è piuttosto un commento. Non vuole far intendere che il fascino esercitato da Reagan sia diminuito. È un commento su come si formano le notizie, e credo che il suo contenuto avrebbe meravigliato sia i libertari sia i reazionari di epoche passate. Walter Lippmann, per esempio, scriveva nel 1920: «Non ci può essere libertà per una comunità che manchi di strumenti per scoprire le menzogne». Nonostante tutto il suo pessimismo circa la possibilità di far rivivere il livello del discorso pubblico dei secoli XVIII e XIX, Lippmann pensava, come Thomas Jefferson prima di lui, che con una stampa addestrata a scoprire la menzogna si sarebbe immediatamente destato l’interesse del pubblico nei confronti della mistificazione della verità da parte del presidente. Con i mezzi a disposizione per scoprire le menzogne, egli pensava, il pubblico non poteva rimanere indifferente alle loro conseguenze.
Ma il caso riferito non si adatta alle sue affermazioni. I giornalisti che si occupano della Casa Bianca sono pronti a rilevare le menzogne, e in grado di creare le basi per un’opinione informata e critica. Diminuisce invece l’interesse del pubblico. Ai resoconti della stampa sulle mistificazioni della Casa Bianca, il pubblico ha replicato con la famosa frase della regina Vittoria: «Non ci siamo divertiti». Però, qui le parole significano qualcosa che la regina non aveva in mente. Significano che ciò che non è divertente non richiede la nostra attenzione. Forse, se le bugie del presidente potessero essere dimostrate mediante immagini e accompagnate da motivetti, il pubblico solleverebbe un sopracciglio, incuriosito. Se un film, come Tutti gli uomini del presidente, potesse essere ricavato dai suoi resoconti svianti sulla politica del governo, se ci fossero particolari infrazioni o si vedessero sinistri personaggi intenti a riciclare denaro sporco, forse l’attenzione si ridesterebbe. Il presidente Nixon cadde in disgrazia soltanto quando le sue menzogne ebbero un palcoscenico nell’inchiesta per il Watergate. Ma qui non abbiamo niente di simile: tutto quello che il presidente Reagan si limita a fare è dire cose che non sono interamente vere. Non c’è nulla di spettacolare in questo.
C’è però un punto più sottile da rilevare. Molte delle «inesattezze» del presidente cadono nella categoria delle contraddizioni, cioè delle affermazioni che si escludono l’una con l’altra perché non possono essere entrambe vere nello stesso contesto. «Nello stesso contesto»: ecco la frase chiave, perché è il contesto a definire la contraddizione. Non c’è contraddizione nel dire che un tale preferisce le arance alle mele, e anche che preferisce le mele alle arance, se la prima dichiarazione è fatta nel contesto di scegliere il disegno per la tappezzeria, e l’altra invece nel contesto di scegliere la frutta per il dessert. Le due affermazioni sono opposte, ma non contraddittorie. Se invece le due affermazioni fossero fatte in un contesto unico, ininterrotto e coerente, allora si contraddirebbero e non potrebbero essere entrambe vere. In breve, la contraddizione richiede che le affermazioni e i fatti siano percepiti come aspetti correlati di un contesto ininterrotto e coerente. Se il contesto non esiste o è spezzato, la contraddizione scompare. Questo punto non mi era mai apparso tanto evidente come nelle lezioni ai miei studenti. Correggendo i loro scritti, «Guarda qui», dico, «in questo paragrafo hai detto una cosa; in quest’altro hai detto l’opposto. Qual è quella giusta?». Sono educati e desiderano compiacermi, ma restano sconcertati dalla mia domanda, come lo sono io dalla loro risposta. «Capisco», dicono, «ma quella è là, e questa è qua». Il contrasto tra noi è che io considero «là» e «qua», «adesso» e «poi», un paragrafo e il successivo, come collegati, come parti di uno stesso coerente universo del pensiero. Questo è il modo del discorso tipografico, e la tipografia è l’universo «da cui io provengo», come dicono loro. Essi invece vengono da un universo differente: l’universo televisivo di «Ed ecco a voi…». Il presupposto fondamentale di quest’universo non è la coerenza ma la discontinuità. In un mondo di discontinuità, la contraddizione non funge da prova della verità o del merito, perché non esiste contraddizione.
Quello che sostengo è che siamo ormai talmente assuefatti all’universo di «Ed ecco a voi…» – un universo a frammenti, in cui i vari fatti se ne stanno da soli, strappati da ogni connessione col passato, o col futuro, o con altri fatti – che sono vanificate tutte le presunzioni di coerenza. E quindi anche ogni contraddizione. Nel contesto di nessun contesto, per così dire, la contraddizione semplicemente svanisce. In sua assenza, che interesse potrebbe esserci a un elenco delle cose che il presidente dice ora e di quelle che ha detto prima? Sarebbe soltanto una ripresa di vecchie notizie, e in questo non c’è niente di interessante o di divertente. L’unica cosa divertente è lo stupore dei giornalisti di fronte all’indifferenza della gente. C’è dell’ironia nel fatto che proprio loro che prima han tenuto le cose slegate e hanno cercato poi di ricucirle, si meraviglino che nessuno ci faccia caso.
Con tutta la sua perspicacia, George Orwell sarebbe rimasto spiazzato da questa situazione, così poco «orwelliana». Il presidente non ha la stampa in pugno. Il Washington Post non è la Pravda; l’Associated Press non è la Tass. Non c’è una «Neolingua» in America. Le menzogne non sono affermate come verità, né la verità come menzogna. Quello che è successo è che la gente si è adattata all’incoerenza e si crogiola nell’indifferenza. Aldous Huxley non si stupirebbe. Lo aveva profetizzato. Riteneva più probabile che le democrazie occidentali avrebbero danzato e sognato nell’oblio, piuttosto che marciato ben allineate e incatenate. Huxley aveva intuito, diversamente da Orwell, che non è necessario nascondere nulla a un pubblico insensibile alle contraddizioni e narcotizzato dai diversivi tecnologici. Benché Huxley non avesse specificato che la televisione sarebbe diventata la nostra droga principale, non avrebbe avuto difficoltà ad accettare l’osservazione di Robert MacNeil che «la televisione è il soma del Nuovo Mondo di Aldous Huxley».
Non voglio dire che l’inconsistenza dell’informazione sia tutta colpa solo della televisione. Sostengo però che la televisione sia il paradigma della nostra concezione di informazione. Come la stampa nei primi tempi, oggi la TV ha acquistato il potere di definire la forma con cui devono essere presentate le notizie, e anche la nostra reazione di fronte ad esse. Nel presentarci le notizie a mo’ di vaudeville, la televisione spinge gli altri mezzi a fare altrettanto, cosicché tutto il sistema di informazioni si specchia nella televisione.
[Divertirsi da morire, 1985]