Niente resurrezioni, per favore

Fred Uhlman

Simon ora era tranquillo, stranamente a suo agio. Non aveva più nausea. Esaminò la scena come se fosse un campo di battaglia, come se il fumo delle sigarette fosse invece prodotto dagli spari. Guardava le facce bizzarramente contorte dei sei uomini, che lo fissavano senza sapere che cosa aspettarsi da quell’estraneo dall’aspetto raggelante, quello straniero capitato fra loro, che nessuno aveva visto per vent’anni, e che anche vent’anni fa era sempre apparso in un certo senso diverso, a quanto ricordavano. Erano tutti sicuri che avrebbe parlato loro della felicità d’essere ritornato in questa città unica, meravigliosa, che l’aveva ispirato, che durante la sua lunga assenza gli era servita da Stella Polare.
Elsas si mise a parlare con calma, senza tradire emozione, ma fin dall’inizio fece passare a tutti la sbornia.
«Signori, avreste dovuto lasciarmi in pace. Non avreste dovuto costringermi a rivolgervi un discorso contro la mia volontà e le mie disposizioni d’animo. Mi dispiace. Sono stato accolto qui con grande gentilezza e con grande riguardo. Mi sento simile a chi, alla fine di un buon pranzo, dice alla padrona di casa che il pesce non era fresco e che il vino era acido. Parlo contro la mia volontà: come potrei non essere franco? Com’è possibile che io discuta di interessi comuni, di ricordi comuni, di amicizia, quando tra noi insorgono gli spettri di sei milioni di ebrei? Com’è possibile, che io, ebreo, sieda a tavola con voi e dimentichi i milioni che sono morti di stenti, senza essere sicuro che la mano che mi offre da bere e da mangiare non è macchiata del sangue della mia famiglia? E come potete parlare della “mia” patria, quando trent’anni su cinquanta mi sono stati rubati, quando desidero ricordarne solo venti?»
«Potete immaginare con quanta riluttanza devo parlare in questo modo. Amavo la Germania. La mia lingua è ancora la lingua di Goethe e di Hölderlin. In questa lingua sono stato educato, di questa lingua mi sono nutrito, saturato, finché è diventata parte di me, tanto che anche ora, pur avendo dimenticato i nomi delle strade di questa città cui un tempo appartenevo e che ora mi è estranea come Timbuctù, anche ora non posso sentir nominare Hölderlin, il Reno, il Neckar, Hohenstauffen, senza commuovermi. Lo voglio ripetere: se mi aveste lasciato tranquillo, avrei taciuto, ma dal momento che sono stato obbligato a parlare posso farlo soltanto secondo coscienza. Devo dirvi che, finché non conoscerò il passato di ciascuno di voi, finché non avrò la certezza che le vostre mani siano pulite, tra noi rimarrà un abisso»
Quando Elsas si sedette, ci fu un silenzio. Dopo un momento che sembrò eterno, Haber propose una canzone. «Perché non riprendiamo Gaudeamus igitur?» 
Si mise a canticchiare l’aria, ma fu interrotto da Hausmann che gli disse: «Zitto, somaro. E chi ha voglia di cantare adesso?… Io desidero parlare a Elsas… Mio caro Elsas. Non so esprimere quanta pena provi per te. Le parole non hanno senso. Ho perso un figlio in guerra e una figlia sotto un bombardamento. Ne ho sofferto profondamente, ne soffro ancora, ma è un soffrire diverso. Tu hai perso di più, perché hai perso non soltanto chi ti era più caro e più vicino, ma anche il tuo paese. Eppure, non è facile nemmeno per qualcuno di noi. Credi veramente che io non provi orrore e vergogna quando penso a ciò che è stato nel nome della Germania? Credi che non mi senta imbarazzato quando all’estero arrivando in albergo riempio un modulo e devo scrivere “tedesco” sotto la voce “nazionalità”? Credi che sarò mai più la stessa persona da quando udii per la prima volta alla fine della guerra il nome di Auschwitz? Pensi che io ami la Germania meno di quanto l’amassi tu? Che io sia meno infelice di te? Lascia che ti dica una cosa: le mie mani sono pulite e questa, ahimè, è un’affermazione che non tutti qui possono fare. Eppure… secondo me siamo tutti colpevoli. Colpevoli di viltà, colpevoli perché apparteniamo a una nazione che…»
Non gli fu possibile finire la frase perché Reitlinger lo interruppe. «Protesto! Non hai diritto di parlare per me. Io non mi sento colpevole. Non mi sono mai iscritto al partito nazista!» 
«Ma, caro amico, sei coinvolto, anche se non ti sei mai iscritto», spiegò Hausmann. «Lo siamo tutti. Quasi la metà degli elettori tedeschi votò in favore di quel pazzo. Come puoi giustificare il fatto che metà della popolazione di un paese che è patria di Goethe e di Schiller, di Beethoven e di Bach, che ci ha dato le più meravigliose cittadine antiche, templi della cultura, si sia lasciata ingannare da quel folle?»
«Ma c’è un’infinità di spiegazioni possibili», lo ammoni Reitlinger. «Hai dimenticato i sette milioni di disoccupati?»
«E l’inflazione che distrusse le nostre classi medie?» interloquì Lindner. «La paura del comunismo? La disperazione, l’abbattimento…»
«E la stupidità, l’ingenuità politica, il provincialismo del tedesco medio», disse Hausmann. «Non pensate…» Ma a questo punto von Muntz, che per tutta la serata non aveva quasi aperto bocca, balzò in piedi, con il volto imporporato, tremante di rabbia.
«Ne ho abbastanza», sbraitò con voce stridula. «Ne ho abbastanza. Qui si sta esagerando. Perché questo… questo… uomo si è presentato qui, questo rinnegato… no… qui si esagera. Non permetterò che sia insultata la memoria di milioni di nostri caduti, dei milioni che morirono cercando di salvare l’Europa dal bolscevismo… e tutto ciò per fare piacere a questo cosiddetto americano, che ha dimenticato che cosa deve alla sua madrepatria. Hitler, alla fin fine, era un grand’uomo. Ha avuto solo la colpa d’essere troppo impaziente. Se dopo la caduta di Praga avesse aspettato qualche anno, tutta l’Europa l’avrebbe accettato come suo duce»
«E avete dimenticato quanto fummo vicini alla vittoria? Naturalmente furono compiuti errori, anche eccessi…»
«Eccessi!» urlò Hausmann. «Chiami “eccessi” la morte di milioni di uomini nei campi di concentramento?»
«Può darsi che eccesso non sia la parola giusta. Gravi errori politici, sì, gravi errori politici»
«Bene, bene!» disse Lindner. «Udite l’autentica voce di un ex alto ufficiale delle SS»
«La prego di dirmi, signore, che cos’ha contro le SS»
«Sono fiero di aver comandato a quei tempi la settima divisione delle SS. Sì, fiero. Combattemmo a Creta, in Francia e in Russia. Morì l’ottanta per cento dei miei ragazzi, i migliori, i più coraggiosi uomini del mondo, morirono per lei, signore, in modo che lei potesse continuare a fare affari»
«Questa è una mostruosa calunnia!» gridò Lindner. «Io ho combattuto in Russia»
«E io in Africa», interruppe Reitlinger. «Ma noi non assassinavamo donne e bambini. Voi
«Ubbidivo agli ordini… quel che ho fatto l’ho fatto per la Germania!»
«Ti proibisco d’insultare la Germania», strillò Hausmann.
«Signori, signori», implorava Haber. «Per favore non perdete la testa. Questa è una riunione, non un dibattito politico. Posso proporre di cantare una delle nostre vecchie…»
«Chi diavolo ha voglia di cantare?» urlò Hausmann. «Non vedi che è in ballo la nostra reputazione? Pensa ai nostri figli…»
«Che cosa vuol dire, i nostri figli? Dio mio, i nostri figli hanno tutte le ragioni di sentirsi fieri dei sacrifici compiuti dai loro padri!»
«Fieri… di appartenere a una nazione di assassini?»
«Assassini! Signore, la sfido a ripetere questa parola!»
«Sì, assassini, la ripeto, questa parola, e continuerò a ripeterla, e te la farò ingoiare a forza fino a soffocarti, sì, sì, mille volte sì, una nazione di assassini»«Signori, signori», si sgolava Haber. «Per amor del cielo smettiamola e ricordiamoci di essere tutti vecchi amici. Vorrei solo non averti portato, Elsas. È stato il mio errore. Avrei dovuto sapere che non era al suo posto in questo circolo. Non è più…». Non lo lasciarono finire la frase. 
Hausmann lo interruppe. «Che cos’hai contro Elsas? È l’unica persona pulita presente, e proprio tu non hai diritto di offenderlo!»
«Che cosa vuol dire “proprio tu”?»
«Sai benissimo che cosa voglio dire! O vuoi che ti svergogni davanti a tutti?»
«Prova, prova!» propose Haber.
«Va bene. È vero o non è vero che hai ordinato l’uccisione di trenta ostaggi francesi?»
«È una maledetta bugia!»
«Una maledetta bugia?»
«Sì, una maledetta bugia!»
«Neghi d’avere dato ordine di uccidere trenta ostaggi?»
«Non trenta! Solo nove!»
«Solo nove! Dio mio, mi viene il vomito!»
«E tu vomita! Che cosa potevo fare di diverso? I miei uomini venivano trucidati dai civili francesi. Era mio dovere salvare le vite dei tedeschi. Mi rincresce solo di non avere fucilato tutto quel maledetto gruppo!»
«Bene, bene! Bravissimo!» Era von Muntz.
«È facile per te, Herr Landgerichtsdirektor, che hai passato tutta la guerra seduto a casa sul tuo culo, criticare i soldati delle prime linee. Che cosa avresti fatto tu al mio posto? Certamente la stessa cosa! Se tu avessi saputo che erano state nascoste delle mine per far saltare in aria l’intera compagnia, e che un prigioniero ne conosceva l’esatta posizione, non l’avresti forse torturato finché ti avesse confessato dove erano deposte? Non guardarmi con quegli occhietti lucidi. L’ho fatto. Più di una volta. Non me ne pento. Se tu potessi salvare un milione di vite umane sacrificandone centomila, non lo faresti forse?» 
«Nessuno ha il diritto di assassinare centomila persone», urlò Hausmann.
«Non ne ha il diritto! Hai sentito, von Muntz? Non ne ha il diritto! Ti dico io chi sei, Hausmann: un imbecille sentimentaloide».
«Sta di fatto che sono cristiano»
«Cristiano! Cavolo! E allora l’inquisizione? E allora Torquemada? E che cosa è successo a Huss?»
«E che cosa è successo agli ebrei olandesi quando li avete presi ad Amsterdam in quella retata e consegnati alla Gestapo?» chiese Lindner.
«Aspettate, aspettate un momento!» disse rabbiosamente Haber. «Questa è tutta un’altra faccenda. Lasciate che vi spieghi…»
Elsas non rimase ad aspettare la spiegazione e uscì dalla sala.
Nessuno si accorse della sua mancanza.
I Vecchi Compagni tirarono avanti senza di lui.

[Niente resurrezioni, per favore, 1979]