Dal fiume al mare, condannate Israele?

Jared Joseph

«Iefte, radunati tutti gli uomini di Gàlaad, diede battaglia ad Efraim; gli uomini di Gàlaad sconfissero gli Efraimiti, perché questi dicevano: “Voi siete fuggiaschi di Efraim; Gàlaad sta in mezzo a Efraim e in mezzo a Manàsse”. I Galaaditi intercettarono gli Efraimiti ai guadi del Giordano; quando uno dei fuggiaschi di Efraim diceva: “Lasciatemi passare”, gli uomini di Gàlaad gli chiedevano: “Sei un Efraimita?”. Se quegli rispondeva: “No”, i Galaaditi gli dicevano: “Ebbene, pronuncia Shibboleth”, e quegli diceva Sibbolet, non sapendo pronunciare bene. Allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano. In quella occasione perirono quarantaduemila uomini di Efraim» – Giudici: 12 (4-6)

Penso sia interessante il fatto che i Giudici ritenevano che gli efraimiti non sapessero «pronunciare bene» la parola, perché se il risultato fosse stato il contrario e i galaaditi avessero perso e gli efraimiti vinto, i Giudici avrebbero detto invece che erano i galaaditi a non saper pronunciare bene la parola. Io ero balbuziente, quindi non sarei stato in grado di pronunciare né ShibbolethSibbolet, e il mio nome ebraico è Yosef Efraim – perché la tribù di Efraim e la tribù di Manàsse costituivano la metà dell’intera tribù di Giuseppe – ma nonostante questo non sono mai stato ucciso.
Galaad come sostantivo ebraico nel suo uso moderno, גלעד, significa «monumento», e secondo la Genesi il luogo Galaad era stato chiamato «Galeed» da Giacobbe – diventato successivamente Israele – perché in aramaico significa «mucchio di testimoni», o «mucchio [di pietre] di testimonianza», ovvero ciò che sostanzialmente è un monumento. Ma mi viene in mente che la scena dello shibboleth rappresenti un monumento costruito dai vincitori, i galaaditi, per celebrare la loro vittoria. E mi viene in mente che il vero mucchio sia costituito dai 42.000 efraimiti morti. E mi viene in mente anche che i veri testimoni siano coloro che non possono testimoniare perché sono stati uccisi da ciò a cui hanno assistito; sono come le pietre che non possono parlare, e come la spiga di grano (questo significa «shibboleth») che non può sentire. O come la parola «martire», che deriva dalla parola greca «testimone». Oppure la radice araba triconsonantica sh-h-d, شهد, che può formare derivazioni che significano sia «testimone» che «martire».
La parola shibboleth è migrata dalla lingua ebraica – ha attraversato un confine – e ora ha significati più ampi. Ad esempio, in informatica ha per lo più il significato di «password». Funziona ancora come un insieme di parole o anche un insieme di credenze o interpretazioni orali che indicano non necessariamente da dove provieni, ma dove ti trovi. In molti casi non ti faranno uccidere.
Ma gli shibboleth classici, o diciamo politici, sono ancora molto in uso, come quando una folla in America canta «fare l’America di nuovo grande» e tu sai che stanno votando per Donald Trump. Durante l’Olocausto c’erano gli shibboleth che gli ebrei cercavano di nascondere, quando cercavano di nascondere la loro vera identità per non essere uccisi. La poesia di Paul Celan «Shibboleth» riguarda in gran parte questo; i suoi genitori furono uccisi dai nazisti perché ebrei. Lui pensa alle origini della parola, alle sue origini galaadite, come possiamo vedere, con le primissime parole che agiscono come una sorta di parola d’ordine, o shibboleth:
Insieme alle mie pietre,

allevate con il pianto

dietro le grate,
mi trascinarono

al centro della piazza,

proprio là,

dove

sventola la bandiera

a cui non prestai alcun giuramento.

Incomincia con le pietre – quelle testimoniali, così come quelle indicanti un’origine nazionale – e un pianto che forse è silenzioso, e forse dietro le grate. Questa prigione però è mobile, e include l’oratore, che viene messo in mostra e diviene una specie di monumento in mezzo al mercato, in mezzo al commercio, in mezzo al denaro, dove l’oratore e le pietre testimoniano l’arrotolarsi della bandiera, la nazione stessa che diventa muta, disfatta, diasporica. All’improvviso viene attraversato un confine e l’oratore non appartiene a nessun paese.
Cuore:

fatti riconoscere anche qui,

qui, al centro della piazza.

Gridalo con forza, lo shibboleth,

nell’estraneità della patria:

Febbraio. No pasarán.

«No pasarán» non è uno shibboleth, ma è la definizione di shibboleth. Si suppone che lo shibboleth dica quale sia la tua patria, da che parte stai; la funzione performativa dello shibboleth è quella di garantire che «loro non passeranno», perché trasforma il «voi» in «loro», e chi invoca lo shibboleth è colui che ti ucciderà se non sei destinato a passare.
L’ironia qui è che «No pasarán» era il grido dei perdenti. I repubblicani nella guerra civile spagnola gridavano «No pasarán» ai fascisti e dei fascisti, che passarono e che notoriamente dissero «Hemos pasados» – siamo passati – per poi uccidere quei repubblicani. In questo caso, quindi, non si tratta di uno shibboleth, ma di un grido di battaglia per gli oppressi, quindi del loro elogio. «No pasarán» è l’autonarrazione dello shibboleth dall’altra parte del confine. È il grido tragico e ironico delle pietre. I testimoni di questi eventi sono i martiri di tali eventi, così Celan ricorda i morti, quelli che sono stati pietrificati e trasformati in pietre, quelli che non passeranno, e non semplicemente la storia dei repubblicani ma degli operai uccisi dai fascisti a Vienna durante la rivolta operaia di febbraio. Paul Celan, che ha scritto una poesia sullo Shibboleth ispirata all’Olocausto e ispirandosi al libro biblico dei Giudici, rimpatria la parola espatriandola. Nessuna nazione può fare affidamento sullo shibboleth perché l’esproprio e l’omicidio sono transnazionali. Ci vuole un testimone, un quasi martire – un esule – per saperlo. Qualcuno che ora non appartiene a nessuna nazione. Un monumento vivente ai perdenti. Una pietra che parla. Un ebreo che apprende che gli orrori che ha vissuto non sono eccezionali.
Unicorno:

tu conosci bene quelle pietre,

tu conosci bene quelle acque,

vieni,

ti porto con me laggiù

verso le voci

di Estremadura.

Questa è la parte finale della poesia. Sappiamo di Gilead, sappiamo del Giordano, sappiamo che l’Estremadura si trova al confine tra Spagna e Portogallo, e sappiamo che «Estremadura» connota un’estremità, un altro confine. Promette la fuga al tempo stesso in cui promette la prigionia o la morte; promette un ritorno alla dinamica dei confini e dei procedimenti giudiziari, mentre ne promette la trascendenza. È impossibile, come un unicorno. Sappiamo che questa ambivalenza probabilmente alla fine si risolve in tragedia, come è successo a Vienna e in Spagna, giacché Celan porta noi, o l’unicorno, non in Estremadura, ma «verso le voci», le voci all’estremità. La voce di una pietra non è mai stata viva, oppure lo è stata una volta; in ogni caso, ha assistito alla morte. «Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince», ha detto Walter Benjamin, che si è tolto la vita durante l’Olocausto per non essere portato via dai nazisti.
Nemmeno il passato, purtroppo, passerà. Circa tremila anni dopo la scena originaria dei Giudici ci troviamo ancora sul fiume Giordano, ma dall’altra parte, nella Palestina occupata non sovrana, un territorio politicamente definito dai confini imposti dal sovrano Israele, nello specifico Gaza, che è sotto occupazione militare dal 1967, e dove adesso oltre due milioni di persone, metà delle quali bambini, vengono bombardate senza pietà dalle forze «di difesa» israeliane («Israele ha il diritto di difendersi» è uno shibboleth) – dove la stragrande maggioranza delle infrastrutture civili critiche sono state ridotte in macerie (testimonianza) – e la cui morte non può essere mandata in onda a causa dei loro discorsi considerati errati dagli shibboleth strategici. Sono stati ritenuti indicibili, mentre sperimentano l’indicibile. Sono stati condannati a morire nel bel mezzo del mercato mondiale, dove sventolano tutte le bandiere.
E così ho qui accumulato un piccolo mucchio di shibboleth contemporanei – metto la spazzatura sotto – perché non sono uno storico e perché non voglio tenere al sicuro i morti, ma i vivi. Ma penso che siano i morti a insegnarci che l’unico vero confine è la morte, e che l’unica differenza di pronuncia davvero pronunciata, ed essenziale, è il silenzio. I morti parlano in silenzio, e quando i vivi tacciono mentre assistono alla morte militare ai confini nazionali, il silenzio dei morti diventa assordante.

«Condannate Hamas?»
Anche qui c’è un confine, ma è in gran parte un confine ideologico. I sostenitori di Israele pongono questa domanda a coloro che cercano di criticare Israele; il più delle volte, gli israeliani pongono questa domanda anche ai palestinesi. Questa domanda viene spesso posta nelle interviste ed è la prima domanda. Guadagnati il diritto di parlare, richiede la domanda.
Il 7 ottobre Hamas ha massacrato circa 1.200 uomini, donne e bambini israeliani. Questo è l’evento specifico verso cui si concentra questa domanda, in questi giorni. È una domanda strana, perché chi non condannerebbe qualcosa che si condanna così chiaramente da sé, un’atrocità? Se è una giornata soleggiata, non chiedo «credete che sia una giornata soleggiata?». Stiamo entrambi socchiudendo gli occhi o inforcando gli occhiali da sole. Tuttavia, se è una bella giornata, potrei dire qualcosa del tipo «non è una bella giornata?». Non sto cercando disaccordi, né discussioni. Sto semplicemente cercando di condividere qualcosa.
Lo scopo di tale domanda è quindi altrettanto coercitivo, ma esistenzialmente. Innanzitutto, non si può dire «No, non condanno Hamas». Se lo fate, la vostra critica o testimonianza è morta, il vostro diritto di parola viene revocato. Se poi, d’altro canto, condannate le azioni di Hamas – cosa che fate, dato che siete umani – allora anche la vostra critica, o testimonianza, è ugualmente morta. La domanda retorica intende affermare, piuttosto, che se si condannano le azioni di Hamas non si può condannare la risposta di Israele. E voi, come filo-palestinesi, o come palestinesi, o come umanitari, o come esseri umani in generale, siete trasformati in pietre.
Ora la risposta di Israele ad oggi – 7 dicembre – è l’uccisione di oltre 17.000 palestinesi, di cui quasi la metà sono bambini. Questo allora è un classico shibboleth, di proporzioni galaadite. La domanda – «pronuncia Shibboleth» – autorizza la risposta omicida. Sebbene io stia riportando una domanda che non viene posta al confine fisico del territorio occupato di Gaza e del suo occupante Israele, ma sui mezzi di informazione, la domanda viene comunque posta il più delle volte ai palestinesi i quali, se vivessero a Gaza, verrebbero uccisi sul colpo anziché sentirsi fare domande. In realtà la domanda è allora «Ci autorizzerai ad ucciderti?», che è una domanda retorica per dire «Ti uccideremo».
Israele ha utilizzato questo shibboleth per decenni, e continua a farlo mesi dopo l’attacco del 7 ottobre. A due mesi esatti dall’attacco, il 7 dicembre, Israele «rivela» i crimini sessuali commessi da Hamas contro le donne il 7 ottobre, e dichiara alle Nazioni Unite: «dovete condannare Hamas». Tutto questo mentre Israele (e gli Stati Uniti) rifiutano le risoluzioni delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco, e bombardano per la terza volta in altrettanti giorni il campo profughi di Jabaliyah, che ospita soprattutto donne e bambini.
La domanda «Condannate Israele?» non viene mai posta nelle interviste agli israeliani, o ai funzionari governativi statunitensi, o agli ebrei, o a chiunque sostenga Israele, questo perché loro non devono dimostrare il loro diritto di parlare. Questa seconda domanda sarebbe ridicola e retorica quanto la prima, poiché Israele ha ucciso più del decuplo del numero di persone uccise da Hamas, oltre a sfollare 2 milioni di persone. Questa è la natura dello shibboleth. Non rispetta né riflette la giustizia, ma il potere. Israele, che detiene il potere sul confine, ha il diritto al silenzio e ha il diritto alla parola. Ciò che esercita invece è «il diritto di difendersi». Si tratta di uno shibboleth minore, nella misura in cui il massacro in corso di palestinesi – «da oggi» è una frase che smetterò di usare, perché tutto ciò che significa davvero è che il mucchio di pietre è ogni giorno più alto e più insanguinato – in un territorio con una popolazione composta per metà da bambini, non può più essere definito da nessuno «legittima difesa». Lo shibboleth più grande a cui si riferisce questo, minore e obsoleto, è comunque «Israele ha il diritto di esistere».

«Israele ha il diritto di esistere»
Israele non ha il diritto di esistere. Anche se rabbrividisco mentre lo dico, quindi so che è uno shibboleth. So anche che è uno shibboleth perché cerca di creare due sponde, perché funge esso stesso da confine: o sei per Israele, o sei nemico di Israele. «Israele ha il diritto di esistere» è la richiesta dei funzionari israeliani e dei leader mondiali filo-israeliani in risposta a qualsiasi critica rivolta a Israele. So che è uno shibboleth anche perché se io ti dessi un pugno nel rene e tu dicessi «ow» e poi dicessi «non farlo» e io dicessi «ho il diritto di esistere», sarebbe irrilevante come se avessi detto «pronuncia Shibboleth».
Le persone hanno diritti, non gli Stati. Il dovere di uno Stato è quello di conferire e proteggere il diritto delle persone ad esistere. Se sbaglio e uno Stato ha il diritto di esistere, il diritto di esistere è revocato nel momento in cui uno Stato minaccia il diritto di esistere di un altro popolo. Inoltre, secondo il diritto internazionale, se le persone vivono in un territorio occupato, lo Stato occupante ha la responsabilità legale di proteggere quelle persone. Eppure, secondo le Nazioni Unite, Gaza viene considerata «invivibile» dal 2020, negli ultimi 3 anni, «indirettamente» a causa del blocco terrestre e marittimo imposto da Israele sulla Striscia, che consente cibo, carburante, elettricità e acqua pulita in misura minima nell’enclave. E ora, da due mesi, è impossibile sopravvivervi, a causa dell’attacco militare diretto di Israele. Negando a un altro popolo la nazionalità, o addirittura l’umanità – «animali umani», dice Israele degli abitanti di Gaza, allorché è Israele a negare loro la personalità e ad ingabbiarli come animali – quello perde il diritto di esistere. Se il diritto di esistere si basa sull’umanità, dobbiamo riesaminare tale definizione.
Se il diritto di esistere si basa sulla democrazia, è logico che una democrazia non occupa una terra e non soggioga le persone che abitano quella terra. Una democrazia non è uno stato di apartheid. Una democrazia non deve la sua esistenza all’allontanamento forzato dei precedenti abitanti di quella terra. Qualsiasi democrazia che lo faccia non è tale. Una democrazia non giustifica la propria esistenza dicendo che Dio ha promesso quella terra a quella democrazia. Anche se ciò fosse vero, una democrazia per definizione rinuncia a quel decreto divino, perché i decreti divini non sono democratici.
Se c’è qualcosa che suona falso nel paragrafo precedente, penso che sia il precedente storico. In astratto, ciò è quanto dovrebbe essere vero per una democrazia. Ma la democrazia che io chiamo casa, gli Stati Uniti d’America, si fonda sul sistematico genocidio ed espropriazione di 200 milioni di indigeni; celebriamo questo fatto seppellendolo con una festa che chiamiamo Ringraziamento. La pulizia non democratica, non consensuale, di lunga data e brutale su cui hanno fondato il loro paese non trova un’espressione adeguata nella parola «grazie» o in una festività chiamata Ringraziamento. Non si è trattato di un’offerta o di una «donazione» della terra fatta a noi, e non è un segreto che si sia trattato invece solo di brutale colonizzazione, e penso che tutti sappiamo che si tratta di un programma nazionale di oblio forzato per giustificare il nostro insediamento qui. Un nome più accurato per la festività sarebbe qualcosa come La catastrofe, o forse Nakba.
Poiché in questo momento la Nakba viene ricostituita – su scala uguale o maggiore rispetto alla sua progenitrice di 75 anni – e in maniera esplicita da parte di Israele, ciò dimostra che di fatto essa non è stata Mai Dimenticata. Questo aggravamento si fonda sulla cattiveria: uno spostamento del proprio trauma Mai Dimenticato da Israele, quello dell’Olocausto (strumentalizzato, o usato letteralmente come un’arma, perché la fondazione di quello Stato «poggia» sul suo «diritto» al «risarcimento»), sulla Palestina. Il senso di colpa apparentemente irrisolvibile dell’Occidente per l’Olocausto, così come il senso di colpa apparentemente irrisolvibile per la propria fondazione colonialista e genocida – perché né l’Europa, né l’America hanno il diritto di esistere, e quest’ultima lo sa, e diminuisce questo senso di colpa insicuro non attraverso scuse o risarcimenti, ma attraverso una festa sulle origini chiamata «Grazie» – entrambe e in tandem finanziano Israele.
La Nakba, passata e attuale, mette in dubbio tutti gli auto-riconoscimenti e la retorica democratica dell’Occidente, ed è per questo che l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, sono stati così complici nella distruzione dei palestinesi come popolo. Distruggeteli così possiamo dimenticare, così i palestinesi non possono ricordarci che noi come Stato non abbiamo alcun diritto di esistere. L’insistenza sul fatto che Israele abbia il diritto di esistere è un’implicita ammissione che Israele non ha alcun diritto di esistere, e che ha usurpato tale diritto ai palestinesi che hanno pari pretesa al diritto di esistere.
Questo è ciò che lo shibboleth intende comunicare: «Israele ha il diritto di esistere [più dei palestinesi]». La persona a cui viene chiesto «Non pensi che Israele abbia il diritto di esistere?» viene sviata. Come tutti gli altri shibboleth, va oltre il punto; il punto è creare un nemico. Da un lato c’è «Israele ha il diritto di esistere», dall’altro c’è «Israele revocherà la vostra esistenza». Non è che a nessuno importa dei palestinesi. È piuttosto che l’Occidente e Israele li vogliono morti.
Lo vediamo in una sorta di sotto-shibboleth, ancora una volta, quello degli scudi umani. Israele sostiene che Hamas usa scudi umani; sostiene che tutte le morti a Gaza come quelle del 7 ottobre sono colpa di Hamas, e che Hamas occupa (in terre anguste, dense e occupate) centri civili per difendersi. Pertanto, qualunque sia il «danno collaterale» inflitto ai civili da Israele, in realtà è colpa di Hamas.
Eppure, nella guerra a Gaza, Israele bombarda un’intera zona civile (la Striscia di Gaza) allo scopo di uccidere un piccolo quadro militare (la leadership di Hamas). In termini di scala ed obiettivo, il concetto di danno collaterale è invertito: i centri abitati da civili sono gli obiettivi primari, e le vittime fra il personale militare sono secondarie. Tuttavia, a causa della considerazione preliminare, in termini di intenzionalità il danno collaterale non è invertito quanto è sfigurato: non si può dire che le vittime civili siano involontarie, e quelle militari auspicabili.
Se Israele accusa Hamas di usare scudi umani, significa che sta sparando contro di loro, lanciando razzi contro di loro e distruggendo intenzionalmente quegli scudi umani. Mi sembra che Israele consideri quegli scudi umani esattamente come sono, «scudi umani», e non come esseri umani, nemmeno come bambini. Nessuno a Gaza è considerato innocente. La disperazione da incolpare e la disperazione da uccidere sono la stessa cosa mentre Israele incolpa i palestinesi persino di morire: perché siete morti quando vi abbiamo sparato?
Israele e i sostenitori di Israele affermano che gli abitanti di Gaza hanno eletto Hamas, e quindi sono complici. Non penso che sia logico; così come non incolpo gli israeliani per le azioni dello Stato di Israele, non incolpo i palestinesi, e nemmeno gli abitanti di Gaza che hanno eletto Hamas, per le azioni di Hamas. Ma anche se gli abitanti di Gaza che hanno eletto Hamas fossero da biasimare, qual è il motivo di uccidere bambini? Qual è la logica di prendere di mira le aree civili in un territorio molto piccolo e chiuso dove la metà di una popolazione estremamente densa di 2.000.000 di abitanti è costituita da bambini? Hamas è stato eletto 16 anni fa, e una volta che hai 16 anni non sei un bambino, e metà delle vittime sono bambini.
Nessun palestinese ha il diritto di esistere, secondo l’ordine mondiale.

«L’antisionismo è antisemita»
Questo è uno shibboleth notevole. Funziona per lo più come lo shibboleth, perché polarizza tutto il discorso in due sensi, con una sola opzione praticabile: non criticarmi. Per esso, l’idea stessa di libertà di parola è un anatema. È il primo emendamento invertito, è la costituzione per le autocrazie.
Inoltre, il sionismo non è una setta ebraica, né un principio ebraico, né un rituale ebraico, nemmeno lo troverete nella Torah, nel Talmud, nel Midrash, ecc. È un movimento e un’ideologia politica basati sul fondamentalismo religioso, come si può dire per Hamas. Spesso noi chiamiamo «terroristi» i fondamentalisti religiosi, ma solo se sono islamici. Anche questo è uno shibboleth.
Il sionismo ha due punti principali: gli ebrei hanno un sacro diritto sulla terra di Palestina, e gli ebrei non possono sopravvivere come popolo in un mondo che è loro profondamente ostile, a meno che non abbiano il proprio Stato.
Queste sono due cose molto diverse. Il primo punto è di natura religiosa – e come la maggior parte delle cose sacre e numinose, dovrebbe essere visto come fisso e immutabile – ma, cosa interessante, non è necessario al sionismo. Ovvero, è letteralmente nominale in quanto «Sion» nella Bibbia ebraica si riferiva a Gerusalemme, e spesso si riferiva metonimicamente all’area circostante più ampia che chiameremmo Palestina. Dunque, Sion e il suo -ismo. Ma in linea con l’uso metaforico di «Sion» nella Torah, i sionisti fondatori non erano necessariamente impegnati a favore di uno Stato ebraico esistente a «Sion», o a Gerusalemme e dintorni. Lo stesso Theodor Herzl, fondatore del sionismo moderno, presentò al 6° Congresso sionista mondiale il Piano Uganda – sviluppato dagli inglesi – un’idea per uno Stato ebraico nell’Africa orientale britannica.
Herzl, come molti sionisti, preferiva fondare lo Stato in Palestina, ma stava cercando la convenienza; considerando la difficile situazione storica degli ebrei perseguitati, reputava che gli ebrei avessero bisogno di una patria sotto forma di Stato, e che quella patria non dovesse essere sanzionata religiosamente come casa; doveva solo essere stabilita. Pertanto, lui e altri sionisti lavorarono con gli inglesi, che speravano avrebbero istituito per loro uno Stato ebraico. Ciò è dovuto al secondo punto che, come ho detto, prevale sul primo: gli ebrei hanno bisogno di un proprio Stato per sopravvivere in un mondo che è loro esistenzialmente ostile.
Questo secondo principio è profondamente cinico; si rassegna all’antisemitismo inteso come fatalismo. I sionisti, inoltre, si affidavano alla Gran Bretagna, un impero colonialista tanto arabofobo quanto antisemita – e che promise la Palestina sia agli arabi che agli ebrei, contemporaneamente, al solo scopo di perseguire una strategia geopolitica contro i turchi durante la Prima Guerra Mondiale – affinché fondasse quello Stato per loro. I sionisti non si facevano illusioni al riguardo: «Gli antisemiti diventeranno i nostri più fedeli amici, le nazioni antisemite diventeranno nostre alleate», scrisse Herzl nel suo diario. Dividendo il mondo in due campi – ebrei e antisemiti – il sionismo ridisegna non solo il mondo intero, ma l’ebraismo stesso. Anche gli ebrei come me, che non sostengono il sionismo, sarebbero considerati antisemiti. E nel contrapporsi a un «mondo antisemita», i sionisti si autorizzano a commettere orrori. Herzl scrisse nel suo diario già nel 1895 il piano sionista per l’occupazione della Palestina: «Dobbiamo espropriare con delicatezza la proprietà privata dello Stato che ci è stato assegnato. Cercheremo di spingere la popolazione squattrinata oltre confine, procurandole lavoro nei paesi di transito e negandole lavoro nel nostro paese. I proprietari degli immobili verranno dalla nostra parte. Sia il processo di esproprio che quello di allontanamento dei poveri devono essere condotti con discrezione e circospezione. Lasciamo credere agli irremovibili proprietari degli immobili che ci stanno truffando, vendendoci le cose ad un prezzo superiore al loro valore. Ma non rivenderemo loro nulla».
Questo piano di pura pulizia etnica prosegue ininterrotto fino ad oggi. Nell’aprile 2021, in un discorso al membro palestinese della Knesset Ahmad Tibi, il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich ha twittato «un vero musulmano deve sapere che la Terra di Israele appartiene al Popolo di Israele, e col tempo gli arabi come lei che non lo riconoscono non resteranno qui». Più tardi, quell’autunno, spiegò che i palestinesi erano lì «per errore, perché Ben-Gurion non finì il lavoro buttandovi fuori nel 1948». E quest’anno, nel tentativo di finire il lavoro, il 12 novembre il ministro della sicurezza israeliano Avi Dichter ha dichiarato: «Stiamo lanciando la Gaza Nakba… Gaza Nakba 2023». Come se fosse un evento da Black Friday. Come se venisse fatto in mezzo a un mercato.
La somiglianza nel discorso dei sionisti con quello dei loro oppressori antisemiti – il fascismo, il razzismo, il colonialismo, la velenosa ambizione alla terra e al potere – è illuminante. È come i galaaditi e gli efraimiti, che si assomigliano l’uno con l’altro, differendo solo nei loro accenti e in chi detiene il potere. Per questo motivo, dei tre questo è per me lo shibboleth più interessante: inverte se stesso. La sua espressione contiene la sua assoluta antitesi. Il confine oltrepassato non è geopolitico, è un confine interiore, si oltrepassa, si annienta. «L’antisionismo è antisemita» è la pronuncia sbagliata: quella corretta è «il sionismo è antisemita».

«Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»

Non so se questo sia uno shibboleth. Come ho detto, uno shibboleth è una sorta di parola d’ordine usata da chi detiene il potere per identificare coloro che non sono dalla parte dei potenti e, nel caso classico, per annientarli. I senza potere che divennero testimoni, o martiri, secondo lo shibboleth di Paul Celan, dicevano «No pasarán», ma ciò potrebbe anche essere interpretato come «passeremo». Potrebbe anche essere inteso come «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera».
Un altro motivo per cui non sono sicuro che questo sia uno shibboleth: viene interpretato in modo diverso da varie parti. «Condannate Hamas?» è performativo; priva voi (palestinesi) della parola e della testimonianza. «L’antisionismo è antisemita» e «Israele ha il diritto di esistere» sono espressioni performative che provocano la stessa non-risposta da parte di coloro che criticano Israele. «Pronuncia Shibboleth» è altrettanto performativo, altrettanto letale.
D’altro canto, «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» ha diverse interpretazioni. Nel suo contesto originale degli anni 60 come slogan per la resistenza palestinese, penso che significasse ciò che afferma di significare: il sogno di una Palestina libera e autodeterminata, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, per un certo periodo, ciò si è tradotto politicamente in un appello per la soluzione di un unico Stato, in cui ebrei e palestinesi potessero vivere sotto un unico protettorato, con uguali diritti e pari libertà. D’altro canto, è stato anche descritto come un appello a una soluzione a due Stati, il che non esclude, da entrambe le parti, che i palestinesi possano finalmente sperimentare la «libertà» dal dominio militare israeliano. Da parte palestinese, «libertà» significa essenzialmente la fine di 75 anni di occupazione, omicidi, apartheid, espulsione e conseguente diaspora.
Tuttavia, è la parola «libera» ad essere stata sottoposta a vaglio più profondo, e questo da parte israeliana. Israele sostiene che «libera» sia un termine codificato pro-Hamas – come uno shibboleth – per indicare la pulizia etnica degli ebrei. Israele sostiene inoltre che l’uso dell’espressione da parte di Hamas nel suo Statuto del 2017 dimostra che la frase è antisemita, e codifica un appello ed un piano per spazzare via tutto Israele.
Questo è strano. Se si considera il contesto del linguaggio dello Statuto del 2017, è chiaro che Hamas sta in realtà sostenendo una soluzione a due Stati. Ecco l’articolo 20:
«Hamas rifiuta qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare. Tuttavia, senza compromettere il suo rifiuto dell’entità sionista e senza rinunciare ad alcun diritto palestinese, Hamas ritiene che l’istituzione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale secondo i confini del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati nelle loro case dalle quali sono stati espulsi, sia un principio di consenso nazionale».
Vediamo qui che la «liberazione della Palestina» non implica in alcun modo l’espulsione degli ebrei; questo malgrado l’espulsione dei palestinesi. E quindi, quando Israele parla di una futura minaccia di pulizia etnica da parte della Palestina, sta parlando solo delle azioni passate di Israele e le proietta liberamente sulla parola «libera».
Per quanto riguarda l’accusa di antisemitismo, l’articolo 17 è esplicito:
«Hamas rifiuta la persecuzione di qualsiasi essere umano o la soppressione dei suoi diritti per motivi nazionalisti, religiosi o settari. Hamas ritiene che il problema ebraico, l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei siano fenomeni principalmente legati alla storia europea e non alla storia degli arabi e dei musulmani o al loro patrimonio culturale. Il movimento sionista, che è riuscito con l’aiuto delle potenze occidentali ad occupare la Palestina, è la forma più pericolosa di occupazione coloniale che è già scomparsa in gran parte del mondo e deve scomparire dalla Palestina».
Forse «libertà» è il vero shibboleth qui in gioco, in quanto gli shibboleth che ho finora illustrato limitano la libertà di parola ai senza potere e garantiscono la libertà di parola ai potenti. Chi è senza libertà non può parlare di libertà; quelli che ne sono sprovvisti non staranno zitti. In effetti, coloro che commettono un genocidio – e coloro che finanziano quel genocidio, come gli Stati Uniti – contro chi invoca la libertà, sembrano avere molto da temere dalla libertà. Insistono che i palestinesi invocano il genocidio, mentre stanno commettendo un genocidio contro di loro.
In quanto frase contestata, quindi, mi sembra che «dal fiume al mare» sia l’unica voce in questa lista che possieda e prometta potenza ai perseguitati. Cerca di rifare i confini, invece di rafforzarli nell’interesse dei potenti; è anticoloniale, e lo vediamo chiaramente nel ritorno regressivo al colonialismo da parte delle potenze «postcoloniali», nella loro fretta di condannare gli utilizzatori globali della frase, e nella loro fretta di uccidere i popoli oppressi per i quali la frase evoca la libertà.
Lo shibboleth è un esercizio di potere. Identifica i nemici perché identifica ciò che non può essere discusso. Tradisce la vostra identità, ma anche se è brandito dai potenti per tradire l’identità dei popoli senza potere che interroga, ciò che in realtà rivela attraverso la sua coercizione è l’intento omicida di chi interroga. Uno shibboleth è brandito solo da chi si degna di uccidervi.
Ecco perché «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera», è un grido di per sé emancipatore. Può essere detto da chiunque: il perseguitato, il persecutore, l’alleato, il nemico. Si trasforma a seconda di chi parla, ma può anche trasformare chi parla.
Io sono ebreo. Israele non è uno Stato ebraico. Non ho mai sentito nessuno dirlo, quindi non è una blasfemia. Ma l’affermazione opposta, cioè che Israele sia uno Stato ebraico e che di conseguenza rappresenti tutti gli ebrei, è talmente diffusa e così scandalosamente falsa che il suo opposto, Israele non è uno Stato ebraico, deve avere un po’ di senso. Da giovane ebreo mi è stato insegnato cosa fosse l’Olocausto, ho imparato l’autentico dolore vivo trasmesso di generazione in generazione a me, a mia madre, ai suoi fratelli e ai loro genitori dai miei bisnonni che sopravvissero e salvarono persino altri dall’Olocausto, raccogliendo ebrei sulle barche per traghettarli lontano, e mi è stato ricordato di Mai Dimenticare, in modo che ciò non accadesse Mai Più. Mai Più non è un appello al genocidio, eppure viene utilizzato come arma nel cui nome commettere un genocidio. Oggi «Mai Più», in modo più esplicito, coincide con l’appello «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera».
Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.