All’orribile, il tumulto
«Avanti, avanti, avanti, o giocondi distruttori.
Sotto il labaro nero della morte, noi conquisteremo la Vita! Ridendo!»
Renzo Novatore
Il mondo è un luogo orribile. Ciò che ci circonda, pur essendo qualcosa di tetro, ha tuttavia una sua ambivalenza: nonostante la tristezza accompagni la maggior parte delle vite, ciò che rasenta questa consapevolezza è una polveriera.
Nelle ultime settimane torna di attualità, anche per chi si era votato alla disillusione, l’idea che il tumulto sia qualcosa di possibile. Se in Grecia per un disastro ferroviario la rabbia è esplosa, in Francia, per l’ennesima riforma che inguaia ancora di più chi sopravvive, la sommossa e la creatività stanno affiorando in tutta la loro passione. Tutto questo capita in un periodo in cui non ci si può dimenticare di quelle poche notizie che sorgono da svariate parti del globo, dove le strade vengono riempite da atti di insubordinazione e da illegalismi vari.
Al di là delle ragioni che innescano la miccia che fa esplodere l’ira di gente arrabbiata, che sia per un governo corrotto, la brutalità della polizia, una riforma previdenziale o le morti provocate da disastri ferroviari, esiste ed è palese un nesso che unisce tutte queste deflagrazioni nella e contro la normalità: l’attacco allo Stato.
Essendo purtroppo spettatori, perché in questo maledetto paese chiamato Italia sembra che la servitù offuschi di continuo la vista dei più, proviamo un instabile malessere nel constatare di abitare in un luogo dove la partecipazione alla propria alienazione regna purtroppo sovrana.
Tutte queste rivolte si contendono l’epoca con la guerra nel cuore dell’occidente e si accompagnano al fallimento di alcune grandi potenze: come non citare infatti i vari crack finanziari che stanno investendo il mondo delle criptovalute e la caduta di alcune aziende legate al cuore meccanico del paradiso artificiale della Silicon Valley? Nel mondo che crolla, cosa di meglio potrebbe comparire se non lo spettro della rivolta?
Va da sé che tutte queste istanze di alterità facciano pensare ad una metafora usata ormai da alcuni sovversivi: quella di un treno, il mondo, lanciato a folle velocità verso il baratro. E come sarebbe possibile non accorgersi del baratro dopo aver visto che per due anni le persone si sono autorecluse in casa perché il potere glielo ordinava? E come sarebbe impossibile ignorare il baratro della minacciosa e drammatica guerra nucleare che può spazzare via chiunque? Si sa, è solo quando le nostre percezioni andranno incontro al vuoto che sapremo con drammatica sicurezza che è davvero finita. Di contro, fino all’ultimo respiro, resta una possibilità: tirare il freno di emergenza e vedere cosa succede. La frenata farà sobbalzare i dormienti viaggiatori distogliendoli dal loro incessante chiacchiericcio intorno al niente? Le loro valigie si apriranno e sparpaglieranno per tutto lo scompartimento i loro ricordi e i loro averi? Queste frenate faranno arrabbiare chi vuole arrivare testardamente a destinazione, magari ad alta velocità? Per questo una frenata decisa e improvvisa rischia di divenire un deragliamento esistenziale contro la folle corsa del mondo che si dirige verso la catastrofe. E allora? Se l’alternativa è scendere nel baratro, che problemi potrà mai avere l’imprevisto?
Insensibili di fronte alla gente, si dirà. Ma quanto sono patetici i piccoli usufruitori della realtà, volontari e promotori della ginnastica dell’obbedienza, che collaborano attivamente al genocidio continuo? Aberranti e patetici come i signori che invocano “un altro progresso e un altro Stato”, bramosi di autorevolezza per mettersi in testa al treno, per soddisfare il loro narcisismo e la loro sete di dominio. Essi non si rendono conto che non è mai esistito un tempo adatto per impadronirsi del treno: lo si può solo fermare.
La prospettiva del bloccare, dell’interrompere e del tirare un freno al mondo scommettendo su cosa si presenterà davanti a noi non è in cerca né di generali, né di soldati. Non abbisogna di cameratesche pacche sulle spalle e sornioni sorrisi da parte delle persone. Non cerca accettazione perché non vuole convincere nessuno. Gli individui, semmai, vanno invitati a non porsi limiti, a scatenarsi perché, come diceva qualcuno sulle barricate, senza disordine il cambiamento è impossibile.
Creare caos, allargare la bellezza delle fiamme, questi rimangono gli obiettivi di una libertà smisurata che vuole rompere ogni anello delle mille catene che ci appiccicano addosso. Ma la soporifera abitudine di inginocchiarsi ogni giorno non si perde in qualche settimana di furore. Solo un disordine prolungato può recidere i rami secchi dell’autorità per far sbocciare i fiori maligni dell’irrequietudine. E allora bisogna dirselo ad alta voce: tagliare è possibile, anzi, del tutto auspicabile in tempi di relativa calma come in momenti di rabbia dilagante.
Sabotaggi continui alle infrastrutture, alle telecomunicazioni, ai trasporti e all’energia possono dare ossigeno e ampliare la rivolta, i suoi discorsi e le sue magnifiche prospettive, sconvolgendo l’ordinarietà della sopravvivenza e svelando nuove possibilità. Disorganizzare l’avversario non è meglio che cercare uno scontro simmetrico che fa della spettacolarità e non della bellezza il suo mantra? Colpire e sparire, col nome di nessuno per poi riapparire altrove, non fa a pezzi qualunque tipo di gerarchia della rivolta? Perché non togliere potenza alle cattedrali del deserto piuttosto che occuparle?
Di fronte ad una varietà infinita di onde, dati e di energia, ed il loro armamentario tecnico, un arcipelago di piccoli gruppi, agendo in autonomia, potrebbero fare più danni che la grandine in estate.
Perché in fondo cos’è una cattedrale? Come una fortezza, una caserma o una prigione, la cattedrale non è un simbolo, è prima di tutto un edificio di potere. E la sua funzione è quella di difendere un determinato rapporto sociale che perpetua miseria infinita e sofferenze atroci: è una continuità dell’autorità attraverso la tirannia del tempo e dell’abitudine.
E se dovessimo fermare il tempo storico, come vedremmo le altre cattedrali intorno a noi? Non sono forse luoghi dove si riproduce il potere e l’eterno rapporto miserevole fra comandanti e comandati anche gli edifici che fanno ricerca scientifica e tecnologica per dare uno sfogo alla società della tecnica? E non sono forse piccole cappelle anche tutte quelle centraline che tengono il mondo appeso ad un filo (elettrico)? E tutti quei cavi che ci passano sotto e sopra la nostra testa non sono forse la linfa vitale che rende continua un’esistenza legata alla mercificazione delle vite? E non è forse nella discontinuità della mercificazione che si può interrompere anche il rapporto sociale dell’autorità e del vivere delegando ed obbedendo?
E allora dovremmo darci a pensieri stupendi come questi, soprattutto in un momento in cui il potere sta solo aspettando la morte di un anarchico murato vivo da quasi dieci anni in gabbia e in cui quando muoiono persone tra i flutti la cosa più sovversiva che avviene è lanciare dei peluche nel mare di Cutro. Solo per citare due esempi “attuali”…
Lasciare tutto com’è o peggio prepararsi alla perpetua sopravvivenza. Oppure? Parafrasando il giovane poeta che vagava a Parigi, tentare di scrivere di sogni, di silenzi. Annotare l’inesprimibile. Fissare delle vertigini…