Il canto del cigno

Mandare a picco la società industriale e sfidare il destino che ci riserva

In una fredda notte d’aprile del 1912, otto musicisti suonavano per l’ultima volta sul ponte di un transatlantico. L’orchestra, composta da un quintetto e da un trio, era stata ingaggiata per il viaggio inaugurale della più grande nave da crociera mai costruita. Il Titanic era stato battezzato «l’inaffondabile» da una stampa impressionata dalle tecniche di punta impiegate per la sua costruzione. Ciononostante, il transatlantico urtò un iceberg e affondò. Due terzi dei viaggiatori e dell’equipaggio annegarono nelle acque gelide dell’Oceano Atlantico.
Fino all’ultimo istante, la famosa orchestra continuò a suonare. Tra valzer gioiosi e pezzi intimi che inducevano i presenti a riconciliarsi col destino che li attendeva, i musicisti avrebbero contribuito a prevenire il panico a bordo. Altre testimonianze sottolinearono che le loro note avevano generato una falsa sensazione di sicurezza che avrebbe spinto le persone a non lasciare in tempo la nave. Comunque sia, gli otto musicisti, tutti morti nel corso del naufragio, sono entrati nella leggenda, esempi santificati di un eroismo quasi surreale.
Sotto gli acquazzoni così caratteristici della Scozia, centinaia di esperti e delegati di tutti gli Stati del mondo si sono incontrati all’inizio di novembre 2021 in occasione del ventiseiesimo vertice sul cambiamento climatico organizzato dalle Nazioni Unite. Chiamato COP26, era lungi dall’essere un viaggio inaugurale e molte orchestre erano già state assoldate per accompagnare le peripezie dell’industrialismo durante il suo naufragio annunciato. Dal 1992, inizio di conferenze quasi annuali, i valzer e le sinfonie sempre grandiose suonano melodie di transizione ecologica, crescita sostenibile, sviluppo verde, economia smaterializzata. Soprattutto niente panico. Ma oggi, pare che neppure i migliori musicisti siano più in grado di nascondere che l’ultimo rintocco è suonato… Difficile non considerare le lacrime e la voce rotta del presidente della conferenza che si è scusato alla seduta finale per il risultato deplorevole – non essendo stato concluso alcun accordo che permettesse agli adepti della politica di credere in una riduzione sensibile delle emissioni di gas serra che riscaldano il clima – come segnali di una rinuncia, dell’accettazione di una sorte diventata inesorabile. Perfino i più ottimisti circa le possibilità dell’industrialismo di realizzare un cambiamento di pelle che non sia solo camaleontico riconoscono ormai che sarà impossibile mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5 gradi. Fin dall’inizio dell’industrialismo, il riscaldamento è stato di almeno 1,5 gradi. I cambiamenti climatici sono stati significativi e adesso si verificano quasi anno dopo anno.
Il cambiamento climatico non è quindi un iceberg contro cui la società industriale potrebbe urtare. Non è una possibilità più o meno probabile. È un fatto. L’attività industriale, la devastazione delle foreste, l’avvelenamento dei fiumi, l’inquinamento dell’aria, hanno rotto l’equilibrio della biosfera fino a generare sconvolgimenti, ribaltamenti, trasformazioni quasi impossibili da prevedere e formulare. I miglioramenti tecnici o le tecnologie più verdi non possono fare nulla al riguardo: è solo musica per spingerci a riconciliarci col naufragio finale che conoscerà questa disastrosa civiltà, animata dal culto della crescita materiale, del dominio, dello sfruttamento del vivente, dell’accaparramento… insomma, del potere. Tutto ciò che accrescerà ulteriormente questo potere (dalle nuove risorse energetiche per colmare la penuria di combustibili fossili alle tecnologie che incrementano ancor più il dominio sul vivente nel nome di una gestione ecologica) non fa che aggiungere una nuova sinfonia all’opera accumulata già estremamente sconcertante. Una buona parte delle problematiche si situano oggi attorno alla questione energetica. I «bisogni» energetici della società onni-digitale non potranno che aumentare. Se nessuna «decrescita» è politicamente o economicamente possibile mantenendo gli attuali paradigmi (sfruttamento, potere, conquista), le problematiche per i capitani di questa società non riguardano tanto la riduzione delle emissioni, ma l’addizione delle risorse energetiche per far fronte al minaccioso binomio dell’esaurimento delle risorse e dell’instabilità climatica. In questo senso, un eventuale rilancio del nucleare è quindi perfettamente coniugabile con lo sfruttamento del vento, delle maree, dei corsi d’acqua, del sole, del calore geotermico ecc. Se il naufragio è effettivamente in corso, nulla impedisce ai capitani di ordinare all’equipaggio di lanciare ancora un’ultima palata di carbone nei forni, di aumentare la pressione nelle caldaie a vapore, di far andare le pompe per evacuare l’acqua che sommerge i compartimenti.
Perché l’acqua sta entrando da tutte le parti nell’«inaffondabile transatlantico» che è la nostra civiltà. Ogni perdita moltiplica la pressione con cui l’acqua fa saltare i rivetti, le saldature, i bulloni che tengono a galla la nave. Nell’estate del 2021 i fumi di dimensioni dantesche degli incendi delle foreste che devastavano la Siberia hanno raggiunto per la prima volta il Polo Nord, dando fuoco alla miccia che farà esplodere la «bomba di carbonio» catturato nei ghiacciai sul punto di sciogliersi. Le tempeste tropicali che devastavano con violenza inedita i territori vicino all’equatore hanno annunciato le siccità bibliche che qualche mese dopo hanno colpito altre regioni. Sono retroazioni climatiche: fenomeni mediante i quali «un effetto sul clima re-agisce sulle sue cause in modo da stabilizzarlo o viceversa amplificarlo». Nel caso di retroazioni negative (qualsiasi fenomeno che, ad esempio, contribuisca al riscaldamento globale), la loro accumulazione o concatenamento può portare ad una instabilità i cui squilibri segnerebbero un punto di non ritorno provocando profonde modificazioni del clima.
Salire sul ponte per scrutare l’orizzonte al fine di avvertire i passeggeri dell’approssimarsi di un iceberg significa rifiutare di capire che i punti di non ritorno hanno già lacerato lo scafo della società industriale. La domanda da porsi non è certo se ci sarà un grande cambiamento climatico, tanto meno di quale ordine possa essere. La questione è sapere se siamo infine pronti a resistere alle sirene della musica che previene il panico, ma anche la rivolta; il punto non è sapere quanti posti ci sono nelle scialuppe di salvataggio, né invocare il prossimo arrivo del Carpathia per un salvataggio in attesa del prossimo naufragio. Nel momento in cui suona la campana, gli orizzonti sono chiusi, e il dibattito ruota attorno alle preferenze per questo o quel presunto salvataggio (energie rinnovabili, geo-ingegneria, ulteriore artificializzazione dell’agricoltura, progetti tanto faraonici quanto totalitari per «restaurare il clima»…), la libertà si trova in coloro che operano per mandare a picco la nave prima che inquini tutto l’oceano con il suo carburante, tutta l’aria con i suoi fumi viziosi, tutto l’universo mentale con il rumore delle sue macchine e le note delle sue sinfonie di distrazione. Questa libertà non può essere portatrice di domani che cantano, di cieli azzurri senza nuvole, di programmi di benessere garantito. Può solo diventare ciò che è: selvaggia e bella, coraggiosa e dolce, capace di mandare la nave e i suoi capitani in fondo all’abisso. È senza rimpianti e non verrà in soccorso di alcun nostalgico del potere, si tratti di un aspirante capo o di un cittadino fiducioso nello Stato. È ora di uscire dai ranghi, adesso. Il canto del cigno è cominciato.

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