Accettare la servitù per non morire

Salvatore Satta

La nota dominante di questa guerra è che il popolo italiano, nella sua immensa maggioranza, ha voluto la propria sconfitta.
Questa realtà di fatto apparirà incredibile allo storico futuro, che perderà il suo tempo a ricercare nei documenti in virtù di quali combinazioni l’esercito nostro, pur così valoroso, si sia a un certo punto letteralmente dissolto, travolgendo nella sua rovina l’intero Stato. Ma per quanto non rintracciabile nelle carte, tale realtà non è meno sicura, e l’aver chiuso gli occhi di fronte ad essa, secondo il suo triste costume, è stata la massima colpa dei governanti di ieri, il cui risorto fantasma vanamente cerca oggi un alibi nelle teste mozze di alcuni generali e ammiragli.
Una siffatta cupido dissolvendi è certamente senza precedenti non solo nella nostra storia, ma in quella di tutte le genti. Dante narra di una certa Sapìa senese che pregava Dio perché i cittadini suoi fossero, come furono, vòlti negli amari passi di fuga: ma Sapìa non era Siena, e invece l’Italia si è fatta Sapìa. Jules Michelet testimonia nella prefazione di un suo libro che le vittorie di Napoleone gettavano nello sconforto le famiglie francesi: ma Napoleone non era la Francia, e ad ogni modo diffidare di una vittoria conseguita non significava ancora volere la propria sconfitta. Questa fu invece voluta dal popolo italiano: il «vae victori» col quale egli rispose il 10 giugno 1940 al «vinceremo» lanciato con voce stridula dal suo capo, fu il programma che egli tracciò a se stesso e al quale restò fedele sino all’8 settembre 1943, quando Dio esaudì finalmente il suo voto.
Abbiamo detto incredibile allo storico futuro, ma in verità è cosa appena credibile a noi stessi, se appena ci fermiamo col pensiero, a simiglianza del giocatore che, avendo tutto rischiato e tutto perduto, cerca di rifare mentalmente la partita, e si rode per le mosse che avrebbe potuto fare e non ha fatto, così evidenti che gli riesce inspiegabile come al momento buono non abbia saputo vederle. Eppure la cupido dissolvendi era in noi tanto radicata che dopo il 25 luglio – memorabile giorno che resterà nella memoria di chi l’ha vissuto come quello di una nuova pasqua e migliore – non pensammo un istante a combattere nel nome di libertà quella guerra che non avevamo voluto combattere sotto il segno della schiavitù, ma tutti i nostri sforzi, e anzi tutte le nostre pretese, volgemmo all’acquisto di una rapida pace, con la tipica mentalità di don Abbondio che trovava Dio in obbligo di aiutarlo, perché nei pasticci non ci si era messo lui. Per questo, come don Abbondio, andammo incontro alla defezione; per questo, sempre come don Abbondio, invece della pace, precipitammo nella guerra che volevamo sfuggire, e che sarà più terribile di quella che non abbiamo voluto accettare.
Pochi infatti intendono che l’8 settembre 1943, e non il 10 giugno 1940, è il vero giorno dell’entrata in guerra degli italiani. Per una significativa combinazione, questo giorno fatale segna non uno, ma due rifiuti del popolo italiano: quello di continuare la guerra contro il vecchio nemico, e quello di iniziarla contro il nuovo, l’alleato di ieri. Ma ciò che il popolo italiano non ha potuto rifiutare, perché non dipendeva dalla sua volontà, è di iniziare la guerra contro se stesso, guerra di espiazione e di purificazione, sanguinoso esame di coscienza di una moltitudine di Caini di fronte al Signore. Dal piano internazionale la guerra si è così spostata sul piano nazionale, e si concluderà sul piano (se così si può dire) individuale, cioè col trionfo dell’individuo sopra se stesso, che è il solo trionfo non illusorio che sia dato conseguire.
Appartiene alle leggi della nemesi storica che solo pochi intendano questo. Se si interrogano le persone che passano per la strada non si legge in esse altro che l’attesa spasmodica della fine della guerra (della guerra altrui), che faccia cessare i bombardamenti delle città e villaggi, e consenta di riprendere la vita normale, cioè la vita di ieri. I più abili affilano già le armi per conquistare il conquistatore; coloro che hanno l’oscuro senso di quel che avverrà ripiegano dalle posizioni avanzate di difesa dei beni a quelle di difesa della vita. Speriamo di salvare la vita: sono parole che ciascuno pronunzia dieci volte al giorno, a conclusione di tutti i discorsi. Ma la condanna evangelica che aspetta colui che vuol salvare la vita nessuno ricorda, e ad ogni modo nessuno comprende più.
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Ma, anche nella veste di posteri, non è facile raccogliere, tra la moltitudine degli eventi, le fila misteriose di una provvidenza. Bisogna infatti ricordare che questa, con imperscrutabile disegno, regge il mondo per mezzo di Satana: e pertanto gli operatori della storia sono veramente i demoni, nel senso dostoevskiano della parola. Chi ha riletto le pagine profetiche dello scrittore russo possiede la chiave per comprendere i tempi nei quali viviamo, per quanto nessun profeta avrebbe potuto immaginare di quali diavolerie sarebbe stato capace il diavolo liberato dal carcere suo.
Se vogliamo dire la verità, il demonio non è, alla pari di Dio, uno e unico: il suo nome è legione, e tante sono le forme che egli assume quanti sono gli esseri in cui si incarna. Quando ad esempio si installa in un cervello nordico, diventa dottore, e crea la dottrina dello spazio vitale, nel cui nome tranquille popolazioni stabilite da secoli in contrade da essi vivificate o addirittura create sono sospinte come armenti verso terre ignote, dove le attende la fame e la morte; o inventa il mito del sangue, nel cui segno donne vecchi e bambini sono martoriati e trucidati; oppure si improvvisa missionario di civiltà, e rovescia sulle città indifese migliaia di tonnellate di bombe, distruggendo in un soffio tutto ciò che di bello e di santo aveva saputo costruire l’opera delle generazioni. Il demonio meridionale invece non è così cattivo: se è in vena di dottrina, si incarna oratore e giurista; se passa all’azione, mostra orrore del sangue, e bisogna che lo tirino per la coda perché arroncigli qualcuno. È piuttosto prevaricatore e corruttore, ed ha, questo supremo, il genio della dissoluzione. Tutto sommato un buon diavolo, che non chiederebbe altro, se la provvidenza non lo spingesse alla perdizione, che di mettersi un paramaniche di raso e farsi burocrate. Come tutti i demoni, egli sa del resto operare miracoli: ad esempio quello di divorare, come una termite, lo scheletro di un paese, e di farlo stare in piedi per almeno venti anni.
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Se si cercano le testimonianze del tempo che fu, si trova che esse sono concordi nel definire quel che è avvenuto un ventennio fa come l’aprirsi di una parentesi nella storia del popolo italiano. Era questa una definizione doppiamente ottimistica: primo, perché supponeva una progressione in quella storia, interrotta o sospesa dagli eventi; secondo, perché la parentesi aperta è fatta per chiudersi e, se il periodo non deve soffrirne, per chiudersi a breve scadenza. In verità, solo qualche profeta di sciagure ha intuito la stabilità e in un certo senso la definitività dell’accaduto; gli altri più facili profeti hanno espiato il loro ottimismo vedendo malinconicamente sfiorire la propria vita prima che la supposta parentesi fosse conclusa.
Lungi dall’avere il suo Wolfgang Goethe che intuisse la novella storia, la rivoluzione italiana, e oggi possiamo dire europea, ha avuto così inizio tra l’universale risata. Mettevano di buon umore gli atteggiamenti gladiatori da lungo tempo dimenticati di una dittatura intercorrente che a torto si identificava con la rivoluzione; così come di questa eccitavano l’allegria le esteriori parate, la caricatura militare, gli atteggiamenti da parvenu dei conquistatori del potere e, non ultima cosa, le riesumate forme e movenze di una romanità risoltasi da secoli in un complesso di inferiorità degli eredi di Roma. Ma ciò che più di tutto disponeva all’ilarità sembrava essere la sostanza stessa della rivoluzione, della quale a dire il vero non si era mai vista l’uguale. A parte infatti le parole altisonanti e gravide di minacce, tutto continuava a essere come prima: i verdi cavalier bianchi e vermigli che la patria esprimeva dal suolo plebeo (figure a tutti note, di una esilarante mediocrità) mostravano di essere già paghi delle lotte combattute per le strade, e preoccupati solo di fare bella figura negli abiti borghesi che si accingevano a vestire; l’ordine nuovo non si sostituiva a quello vecchio, ma si giustapponeva ad esso, così che ogni buon italiano (e per essere buon italiano) era autorizzato a sdoppiarsi in vecchio e in nuovo, mostrando in pubblico questo volto. Incredibile a dirsi, persino la feccia dei bassifondi, che il fiuto della rivoluzione aveva rimescolato e portato a galla, ammantata di panni eroici, era vaga di conquistarsi uno stato giuridico: così che le facce bieche e i lunghi coltellacci penzolanti dalle cinture mettevano un po’ di paura, ma infine anch’essi facevano ridere.
È davvero sorprendente, e non senza una arcana ragione, che il più profondo rivolgimento della storia, tuttora in atto dopo oltre venti anni, e del quale probabilmente noi non vedremo la fine, si sia iniziato in un modo così ridicolo, e quasi mettendo in istato di grazia il popolo che doveva subirne le più dure conseguenze.
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L’uomo tradizionale era un uomo onesto. Se egli non era fatto per comprendere il discorso sulla montagna, era tuttavia rispettoso della legge, e non solo osservava il decalogo, ma lo aveva stemperato in mille articoli di codice, coi quali aveva volontariamente circoscritto la sua libertà. L’uguaglianza di tutti di fronte a questa legge era la sua fede: e se anche un Anatole France poteva irridere a una legge che ugualmente vietava al milionario e al povero di dormire sotto i ponti e di chiedere l’elemosina, la sua dissolvente ironia non lo turbava, perché egli non era fatto per comprenderla più delle beatitudini.
Lo spirito della legge stava nello scambio delle libertà primordiali, ma scomodissime, di ammazzare e di rubare, con la libertà di impadronirsi, sotto determinante condizioni, dei beni del mondo. In grazia di questo scambio l’uomo aveva potuto fondare una famiglia, costruire una casa, cingere con muro e con fossa una parte più o meno vasta della crosta terrestre: larghi orizzonti si aprivano alla sua volontà di lavoro e di conquista. Signore di se stesso e delle sue cose, intiepidito dal benessere, s’intende facilmente come egli abbia sprofondato in Dio le radici della sua fortuna, e chiamato santa la legge che gliela consentiva e custodiva, santi i patti che gliela procuravano, e infine, attraverso l’idea di individualità e di libertà, santificato se stesso. Deus nobis haec otia fecit, egli poteva dire se sapeva di latino, e il suo dio era in realtà quello del servile pastore virgiliano.
Ora è chiaro che, per quanto modificata e trasformata nello scambio, la nuova libertà conservava intatta l’essenza di quella antica, e l’uomo civile si ricongiungeva al barbaro nell’identità del fine che aveva posto alla sua esistenza: non è perciò meraviglia che quando la gente di ventura di cui abbiamo parlato si identificò con lo Stato, rovesciando le tavole della legge, quest’uomo si sia sentito risospingere come da un irresistibile impulso verso le origini, e rifluire nelle vene gli istinti assopiti. La sua tentazione era in fondo la stessa che provò Gesù sulla cima della montagna, quando il diavolo gli profferse tutti i regni del mondo e la loro gloria: tutte queste cose ti darò se cadendo in ginocchio mi adorerai. Pensare: un ordine, niente altro che un ordine, sia pure costruito nei secoli con tanta pena, che si interpone fra l’uomo e i regni del mondo; e d’improvviso il demonio cancella quell’ordine, e ricorda all’uomo che egli può stendere la mano e prendere senza fatica quel che già gli costava il sudore della fronte: non è forse questa, in termini moderni, la grande tentazione di Cristo?
Appena ebbe ceduto alla tentazione, l’uomo tradizionale rivelò, come Pafnuzio, un volto di vampiro. In tutto simile allo sciancato che abbandona le stampelle che lo sostenevano, il suo primo gesto fu quello di gettarsi sulle ginocchia, e strisciare. Nessuna cometa annunziava l’ordine nuovo proclamato con frasi sonore dai pontefici che la rivoluzione sprizzava ad ogni istante dal suo seno, e che un popolo sorridente copriva di ridicolo: ma Gaspare, Melchiorre e Baldassarre si mossero ugualmente coi loro carichi di mirra e di incenso, e ritrovarono nel buio, forse per una misteriosa anamnesi, le vie che duemila anni prima avevano percorso per adorare una greppia. Essi non erano più pastori, ma cavalieri e commendatori, prìncipi e duchi, cattedratici e legulei: tutta gente che il privilegio della libertà aveva creato e mantenuto, e che ora, prostrata davanti a padroni, cui la libertà aveva negato pur un tozzo di pane, invocava per sé il privilegio dalla servitù. Quando rialzarono la testa, si poté leggere sulla loro fronte, come l’M sul volto affamato di Forese, il carattere della bestia con cui avevano stretto il pactum sceleris, e che una lunga consuetudine di libertà aveva fatto sparire.
È sperabile che, ad perpetuam rei memoriam, l’aneddotica della storia raccolga tutte le testimonianze dell’abiezione manifestata dall’uomo tradizionale nell’estremo periodo della sua vita. Ma quel che più interessa osservare, nell’indagine che ci siamo proposti, è come già in questa abiezione vi sia la traccia dei secreti disegni della provvidenza, che mirava a distruggerlo. Non poteva essere invero senza un arcano volere che il ricco e il nobile, che già procedevano fieri del loro divino mandato, si siano improvvisamente piegati di fronte a quattro avventurieri, invocando da costoro la conferma dell’investitura: in tal modo essi fornivano al mondo la dimostrazione più sicura dell’illegittimità del loro privilegio, e richiamavano alla ribalderia dell’origine. Nella stessa guisa il mercante o l’industriale, che arricchendo i nuovi padroni si arricchì, e trafficando col corpo della patria moltiplicò le sue ricchezze, tolse ogni dubbio sulla asocialità della sua funzione; lo scienziato e il letterato infine, mettendo a disposizione dell’avventura la propria esperienza, e legittimando con improvvisate formule l’arbitrio e il capriccio, rivelavano il fondamento simoniaco della loro cultura, e distruggevano per sempre la loro stessa pretesa di costituire un’élite.
È probabile che molti degli italiani che prestarono ossequio ai nuovi venuti, guardandosi nello specchio con una certa indulgenza, non riescano a scoprire nel loro volto il marchio della bestia, e trovino che la cupa rassegna ora compiuta non li riguarda. È questo il gregge di coloro che accettarono la servitù per non morire, i servi de damno vitando, che vorrebbero contrapporsi ai servi de lucro captando, e rivendicare nei loro confronti una certa purezza. Si può forse concedere che, secondo la casistica del suo codice, questa gente che continuò a recare nel cuore la nostalgia di una libertà che non aveva avuto il coraggio di difendere (provando così che essa non era vera libertà) meriti qualche attenuante: ma forse nessuno più di questi servi reca le stimmate dell’uomo tradizionale, e vanamente essi cercano di sottrarsi al giudizio della storia.
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Fu certamente questa la più grande finzione che abbia mai registrato la Storia. Da un lato un regime, e cioè un gruppo di individui, che avevano conquistato il potere e col potere la ricchezza, e volevano mantenerla, il quale per legalizzare le sue malefatte impianta tutto un sistema filosofico giuridico, alla cui base sta la crociata contro l’individuo (e s’intende l’individuo che può contestargli il diritto a quel potere e proclamare l’illegalità di quella ricchezza); dall’altro questo individuo che, volendo salvare la sua ricchezza e se stesso, si affida a quel regime, e per servirsene lo serve.
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Eppure, se l’uomo tradizionale avesse avuto orecchie per udire e occhi per vedere, se cioè non l’avesse reso cieco e sordo il proprio egoismo, avrebbe intuito quel che a noi oggi appare chiarissimo: e cioè che la finzione della quale egli era al centro, così come tutto quello che il regime operava, non era senza un secreto ordine soprannaturale: e forse non gli sarebbe riuscito impossibile scoprire e seguire nell’opera del diavolo il filo sottile della provvidenza.
Il regime, come abbiamo detto, non era altro che un gruppo di uomini ebbro di potere e di ricchezza: e come tale non faceva che ripetere per l’ennesima volta un fenomeno sempre ricorrente nella storia del mondo. Che questo gruppo di uomini volesse mantenere il potere e la ricchezza e volesse consolidarli nel presente e nell’avvenire è ben naturale: a questo fine tendevano necessariamente tutti i suoi sforzi, era ispirato ogni suo minimo gesto, e sarebbe assurdo pretendere, poiché erano uomini, che pensassero o agissero diversamente, accettando di compiere qualche atto che, vantaggioso per gli altri, fosse rovinoso per sé. Gli stessi partiti che li contrastavano non sfuggivano a questa legge, come dimostra il fatto che del contrasto avevano fatto la ragione stessa della loro vita: e se i modi di quelli apparivano più bruschi, e si concretavano in ammazzamenti e imprigionamenti, ciò non importava differenza di sostanza, ma era, come suol dirsi, questione di forma.
La vera singolarità del regime consisteva invece in questo: che i suoi pensamenti e le sue azioni erano costantemente e fatalmente determinati dalla necessità di legalizzare una situazione di rovina, della quale esso medesimo aveva posto le cause. Vi era in quel regime un vizio di origine, che non era tanto l’autoidentificazione degli uomini con lo Stato (poiché tale identificazione c’è sempre, con qualunque regime), quanto l’ingenua e primitiva interpretazione parassitaria di essa. Questa aveva avuto come conseguenza la tacita e talora addirittura espressa sospensione della legge a favore di quegli uomini, l’instaurazione dell’arbitrio e con l’arbitrio della predoneria, infine, la rovina dello Stato, che, per la posta identificazione, si risolveva nella rovina del regime. L’unico rimedio sarebbe stato naturalmente la restituzione della legge e la dissoluzione del regime; ma poiché esso a tutto poteva rinunciare, meno che ad esistere, altro non poteva fare che pensare e agire seguendo quel processo logico e psicologico ben noto ai moralisti e confessori cristiani che va dal peccato alla esaltazione del peccato. In tal modo la rovina non fu evitata, ma diluita nel tempo, ciò che per la gente di ventura è già un sensibile risultato.
L’esaltazione del peccato assunse la forma teorica e mitica della statolatria: fu eretto un altare al dio Stato al quale tutti gli individui e interessi dovevano essere subordinati; onde quel gruppo di persone che si identificava con lo Stato innalzava sugli altari se stesso, e rendeva tabù qualunque suo atto e gesto. La forma pratica si manifestò nella soppressione delle libertà formali, nella persecuzione feroce di tutti gli individui che coi loro interessi attraversassero gli interessi dei dominanti, nella ricompensa di coloro che in un modo o nell’altro sacrificassero al nuovo dio, e infine nell’imposizione di un credo tambureggiante a tutto il paese. Tutte cose che per essere state recentemente e intensamente vissute non è mestieri ricordare, e anzi noi chiediamo come una grazia di dimenticare.

[De profundis, 1948]