Annientati dall’assenza

Il mondo è una prigione dove è preferibile stare in cella di isolamento
Karl Kraus

L’abitudine.
La frustrazione.
È difficile ogni giorno guardare al mondo e chiudere la porta. Sedersi al proprio posto e vedere affondare i nostri desideri come il Titanic contro l’iceberg dell’esistente.
Siamo ridotti alla polvere di ciò che avremmo voluto essere. No, non è né la polvere nera che deflagra contro l’oppressore né quella di archivi che custodiscono un sapere ed un pensiero da tramandare ad un’epoca futura più degna.
Siamo semplicemente la polvere dei giorni che scorrono senza un senso, di vite trascorse a rincorrersi tra un aperitivo ed un apericena. E pensare che già Anders aveva messo in guardia dalla trappola degli happening.
Ma cosa può muovere la nostra sensibilità alla trasformazione di sé stessi e del mondo? Cosa interrompe i pomeriggi, le notti, le mattine? Cosa ci potrebbe spingere a guardare l’alba da alture impervie o a discendere costoni lungo sentieri battuti solo da animali selvatici?
C’è chi dice l’ingiustizia. C’è chi dice l’etica. C’è chi dice il desiderio di rovesciare questo mondo per vivere finalmente rapporti altri e liberi.
Tutto vero e tutto falso. Noi non siamo in grado di farci trascinare da queste cose. Perché necessitano di una spinta proveniente da noi stessi. Altrimenti restano lettera morta, petizioni di principio. Ci deve essere altro prima. Dovremmo essere noi il principio della nostra vita, dovremmo saper davvero fondare la nostra causa su null’altro che il nostro volere. Ma non ne siamo in grado.
Se così fosse, non avremmo bisogno dell’eccezionalità per intravedere una frattura. Basterebbe ciò che è, quotidianamente, per coglierne l’incompatibilità con quel movimento che portiamo nel cuore.
E di fronte alle nostre miserie, al nostro dimenarci su questioni di poco conto per cui basterebbe l’amore per la libertà a sciogliere ogni dubbio o incertezza, come sopperiamo a questa mancanza, desiderosi di trovare comunque un quieto addormentarsi sul finire del giorno?
Con il surrogato dell’emergenzialità. Perché in fondo in un’epoca che si governa grazie all’emergenza perpetua, illusa di essere ormai alla fine della Storia, anche la tensione rivoluzionaria non può fare a meno di evocarla. Siamo figli di questo mondo insanguinato, dopo tutto. O vogliamo ancora prenderci in giro?
Abbiamo bisogno dell’urgenza affinché la rabbia riesca a farsi strada tra le nostre giustificazioni, ed il rinvio al domani lasci spazio all’oggi? E cosa accadrebbe qualora venisse meno? No, non possiamo pensare di lottare contro questo mondo come se si trattasse di scegliere i buoni propositi per l’anno prossimo, quelle istanze imposte dalla pressione sociale che vengono disattese puntualmente finita la prima settimana di gennaio.
Eppure basterebbe saper accettare che la catastrofe quotidiana è la normalità, per trovare un modo altro di esistere. E quindi di lottare.
Prendiamo ad esempio la questione del carcere.

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Chi è rinchiuso in carcere è privato con la forza della propria libertà. Non che chi è fuori da quelle mura si possa definire libero, ma perlomeno non è completamente in mano ad un’istituzione totale. È questa la distinzione qualitativa che non può essere posta in secondo piano rispetto al tentativo di settorializzare e differenziare le esperienze di vita in base al regolamento penitenziario. Chi è fuori è fuori, e chi è dentro è dentro. Quella chiave che gira nella toppa lo ricorda senza lasciare spazio alcuno al dubbio.
Al contempo, le norme carcerarie cercano in ogni modo di spezzettare la possibilità di vivere un’esperienza comune sul carcere. Se venisse colto che la questione sta tutta nella cattività in sé, non tanto nell’opportunità di poter accedere a determinati benefici o attenuazioni della condizione detentiva, allora la lotta contro la reclusione prenderebbe di mira il carcere stesso, negandolo alla radice, senza immaginare possibili sbocchi parziali. Fin quando esisteranno corpi chiusi a chiave, la lotta non si esaurirebbe.
Per questo i diversi modi con cui poter scontare la pena o accedere alle misure alternative hanno avuto storicamente la funzione di cercare di frantumare e prevenire le possibili lotte contro il carcere e le rivolte che ne potevano scaturire. Eppure, non è certo un regolamento a determinare ipso facto la percezione di quella che è la vita in prigione. Ci sono in Italia cinquantacinquemila esperienze diverse di carcere, una per ogni individuo rinchiuso oggi dietro quelle sbarre. Perché, per quanto la norma cerchi di ridurre le varie esperienze di vita, gli individui sono (almeno nel loro nucleo più intimo) irriducibili ad essa. Qualcosa eccede sempre la legge. La solidarietà, l’amicizia, l’amore, l’odio. Qualcosa che rende la diversità delle esperienze un modo per cogliere la propria sofferenza comune.
Il carcere più duro non è infatti quello con più ore di isolamento, ma è quello che spezza l’individuo irrimediabilmente spingendolo a porre fine alla propria vita pur di uscirne. Anche se sovente l’isolamento e la deprivazione sensoriale sono utilizzati a tale scopo, gli individui vengono spezzati in tanti altri modi diversi. E molto spesso non è in un regolamento che possono essere scovati tali modi.
Hassan Sharaf, detenuto ventunenne, muore in ospedale dopo una settimana di agonia. Il 23 luglio del 2018 si era stretto una corda attorno al collo. Avrebbe dovuto uscire dopo poco più di un mese, ma qualcosa quel giorno è diventato troppo per lui. Rinchiuso in cella d’isolamento, continua ad agitarsi. Un secondino entra e lo sbatte al muro con uno schiaffo. Così decide di impiccarsi, i mesi di detenzione scanditi da minacce e percosse sono ormai troppo per lui. E non intende più sottostare all’orrore della detenzione.
«Quel maledetto giorno si è fermata la mia vita. Sono caduto in un abisso profondo. O decido di farla finita e darla vinta a questi soggetti malati, a queste bestie che si vantano di essere lo Stato, oppure inizio a prendere coraggio e denunciare, anche se ho tantissima paura perché non mi fido più di nessuno. Tantomeno dello Stato». Questo scriveva il detenuto da cui è partita l’inchiesta sul carcere di Ivrea che ha portato ad indagare 45 persone che lavoravano lì. «Mi dice: Fai il bravo che fai la fine del detenuto di Milano, che l’hanno fatto trovare impiccato». «Divento un pezzo di ghiaccio: non chiudo occhio tutta la notte. Ero terrorizzato, mi sentivo io il colpevole». La normalità del carcere, insomma. È la normalità ad essere terrificante tortura. E questa tortura non ha alcun regolamento a cui fare riferimento.
A cosa serve quindi la corsa all’individuazione del carcere «più duro», dell’ingiustizia più ingiusta, del volto più assassino dello Stato? Non sarebbe forse la distruzione del carcere in sé un’istanza di vita in grado di distruggere tutte queste distinzioni superflue? Non si possono nascondere i limiti del pensare con l’emergenza del fare. Non possiamo cercare al di fuori di noi giustificazioni alle nostre scelte: non sarà lo Stato a fornirci un motivo per attaccarlo. Il motivo per attaccare dovrebbe essere dentro di noi a priori. Oggi, come vi era ieri ed il mese scorso. Ma eravamo e siamo abbastanza attenti da saperlo cogliere?
E pensare che c’è ancora chi vuole inerpicarsi sulle astrattezze del pensiero per riesumare le differenze tra prigionieri politici e comuni. Da un lato si criticano le separazioni tra vita e lotta e dall’altro si usano come giustificazioni del proprio fare? Non è forse tutto il carcere ad essere luogo di sopraffazione e gerarchia, al di là della sezione di destinazione? AS1, AS2, AS3… comuni!
Basterebbe anche solo pensare che ad oggi, indipendentemente dalle classificazioni tassonomiche che perdono nel dettaglio la visione complessiva, risultano esserci stati 79 suicidi nelle carceri italiane. Il più alto numero di morti ammazzati in assoluto. E poco stupisce che una delle più sanguinose rivolte avvenute in un carcere italiano sia sempre di questi primi anni del secondo decennio del XXI secolo: Modena, 8 marzo 2020. E che dire delle altre morti del 2022? 81 decessi naturali, 3 decessi accidentali e 27 casi da accertare. Senza addentrarsi in valutazioni su quanto l’essere rinchiuso possa minare la salute da un punto di vista generale, tralasciamo le morti «naturali». Cosa sono questi decessi accidentali e da accertare?
Il 10 maggio Vittorio Fruttaldo ed il suo compagno di cella Costantino Fazio litigano nel cuore della notte. Entra la penitenziaria e li divide, portandoli in due celle diverse. Al mattino Fruttaldo è morto. Infarto, dicono. L’11 maggio viene inserita una segnalazione nel sistema informatico del DAP che descrive un’aggressione da parte di Vittorio all’assistente Nicola Notari (prognosi di 21 giorni con diagnosi di trauma cranico-facciale) e all’agente Amodeo Pirozzi (prognosi di 10 giorni).
Costantino il 30 agosto scrive al Garante per i detenuti: «A Fuorni è accaduto un evento drammatico di inaudita violenza e crudeltà nei confronti di un detenuto il quale purtroppo è deceduto dopo un pestaggio subito da parte di due agenti di custodia della polizia penitenziaria. Il suo nome era Fruttaldo Vittorio. Il fatto è avvenuto sotto i miei occhi e a tutt’oggi sono l’unico testimone oculare. Sono stato sentito dalla procura di Salerno il primo luglio 2022. Signore, lei non può immaginare gli abusi e le vessazioni che ho dovuto subire, sono stato trattato come un appestato solo per aver detto la verità e aver denunciato al Dap di Napoli tutto quello che era successo». Il garante dei detenuti riceve la lettera solo il 2 novembre. Nello stesso mese Costantino diventerà il suicida numero 76 del 2022. A Fuorni, dopo la sua prima denuncia, gli hanno impedito di chiamare la famiglia e per questo è caduto in depressione. «Hanno cercato di sedarmi con terapie che non avevo mai assunto fino al 10 maggio, dopodiché ho tentato di farla finita perché non reggevo più una detenzione che ha leso i miei diritti». Dopo altri due mesi sarebbe riuscito finalmente a porre fine alle sue sofferenze.
Ecco alcuni esempi di casi da «accertare». Sono tutti i Cucchi che non trovano riflettori e attenzione. Sono i senzatetto, i senzafamiglia, i senzaterra, i senzadocumenti, i senzanome, i senzasoldi, i senzapotere. La mancanza e la solitudine rendono il carcere un mostro che divora vite umane. Le divora senza differenziarle, in massa. Coloro che vi finiscono vengono trasformati in profitto e diventano un monito per coloro che non sanno o non vogliono adeguarsi.
Per questo la distruzione del carcere come elemento strutturale di questo mondo è altro rispetto all’odiare le ingiustizie presenti in casi individuali. Non esiste detenzione giusta, non esiste privazione lieve di libertà. Esiste la cattività ed esiste la libertà. Punto.
In passato ci sono state storie di individui che ci hanno colpito al cuore. Ma è mai stata la quantità del clangore a trasformarsi qualitativamente nel desiderio di un mondo senza potere e senza prigioni? Dovremmo aver fatto abbastanza i nostri conti con Hegel per capire che la questione è andare oltre la singolarità dell’ingiustizia, per saper guardare a fondo nel sistema della sopraffazione.
La libertà non può venir distribuita secondo liste d’attesa, al pari delle case popolari o di quelle occupate dal racket di Movimento. Si può trovare un modo per guardare oltre le singolarità, oltre le falle di un sistema che proprio perché affrontate singolarmente rinsaldano la logica dell’a-poco-a-poco e facilitano l’azione politica di organizzazioni e partiti che perseguono invece tale obiettivo? Individuare ciò che unisce, senza per questo perdere la propria unicità, potrebbe essere qualcosa che aiuti a darsi la prospettiva di sovvertire ogni cosa. E questo semplicemente perché proprio sentendosi accomunati da un destino simile si può alimentare una rivolta che metta in discussione tutto alla radice e non solo ciò che colpisce direttamente noi. Ad esempio, nel periodo del primo lockdown non era più dirimente il particolare regime di detenzione per chi si trovava in carcere: il distinguo si era spostato, semplicemente ma radicalmente, tra chi era dentro, prigioniero, e chi era fuori libero e non provava la paura dei detenuti di morire rinchiusi di malattia o di isolamento. Da questo l’impellenza di una rivolta che attraversasse ogni sezione ed ogni piano per chiedere, semplicemente, libertà?
Per fortuna il rifiuto del carcere si alimenta anche di atti individuali, compiuti da esseri che piuttosto di aspettare una coscienza collettiva che «ha da venire» o l’ennesima morte annunciata a cui reagire decidono di cominciare a ribellarsi subito alla banalità dell’ingiustizia quotidiana, sia dentro che fuori. Alle battiture che coinvolgono intere sezioni, come quelle di Trapani a metà di questo mese, si affiancano così le quotidiane aggressioni ai danni dei secondini, come quella ad un agente del GOM avvenuta a Salerno il 16 novembre o a Parma il 26 dello stesso mese. Oppure i danneggiamenti, come quello nel carcere di Terni del 27 novembre in cui un detenuto ha incendiato la propria cella dopo essere stato trasferito dal carcere di Livorno, o i sabotaggi di ciò che fuori da quelle mura alimenta (talvolta, perché no, anche letteralmente) il loro funzionamento. Solo a Teramo le aggressioni, gli insulti e le minacce nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria e di tutti gli altri operatori risultano essere state ben 1600 (metà novembre 2022) a fronte delle 800 denunciate nell’anno 2021. E ci sono poco più di 400 detenuti.

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Ma servono poi davvero questi dati? Cosa cambia sapere un numero o una tendenza quando già l’esistenza di quelle mura è di per sé testimonianza viva e terrificante? Cosa indicano, di fatto, quei blocchi di cemento se non la presenza quotidiana dello Stato, il suo incombere sulla vita di noi tutti con la minaccia del suo potere?
E se non intendiamo costituire un contropotere o non vogliamo conquistare lo Stato – e diventare a nostra volta Stato, con le nostre prigioni e i nostri tribunali – non è anche perché in realtà sappiamo di essere incompatibili e diversi da chi invece pensa che la questione del carcere sia riconducibile ad un problema di mala gestione?
Il rapporto di forza, inteso in senso politico, comporta il volersi porre come forza commisurabile a quella con cui ci si vuole confrontare. Perché le lotte anarchiche giungono talvolta ad assumere tale forma? Davvero ignoriamo che non si può aprire una trattativa per il soddisfacimento di rivendicazioni parziali senza riconoscere l’interlocutore e dialogare con esso? E non è piuttosto il tentativo di recuperare una lotta che porta al soddisfacimento di alcune istanze specifiche da parte del potere politico e non la considerazione che quella scelta sia imposta dallo scontro sociale in atto? Per questo le cosiddette vittorie sono quanto di più pericoloso esista per la conflittualità permanente. La vittoria è parte del recupero. E questo non perché bisogna accettare soltanto di perdere e vedere l’infamia dilagare ad ogni angolo del pianeta, ma semplicemente perché il piano della trasformazione radicale è quello di una tensione che non decade in valutazioni di efficacia e scelte strategiche volte al risultato. Siamo ai ferri corti prima di tutto con noi stessi. Ma se decidiamo di camminare fianco a fianco con chi imposta la propria azione su scelte strategiche, valutazioni di efficacia o anche peggio, potremmo anche provare a spiegar loro le nostre idee con parole chiare che, lungi dal convincerli, resteranno ugualmente incomprensibili alle loro orecchie. E non è la radicalità momentanea o la violenza utilizzata in altre circostanze a poter accomunare due antagonisti allo stesso nemico.
L’individualità è elemento fondamentale della progettualità rivoluzionaria, ma non lo è la personalità o la personalizzazione di ciò che ci spinge a combattere contro l’ingiustizia. Anzi, è stato proprio questo il processo che abbiamo percorso nella nostra vita, nella direzione opposta. A partire dalle particolari ingiustizie che vedevamo avvenire intorno a noi siamo risaliti alla dimensione generale dell’oppressione. La distruzione del carcere e del suo mondo dovrebbe quindi prescindere dai simboli perché i simboli possono crollare facendo franare anche ciò che giungono a rappresentare. Ed un’istanza assoluta come quella della libertà non può essere ridotta a questione parziale. Questione parziale può esserlo la solidarietà umana, il sostegno materiale a chi è detenuto, il reperimento di fondi per la difesa legale, ma ben altra cosa è inseguire la libertà. La lotta, quindi, o rimanda alla totalità delle cose o semplicemente è qualcosa d’altro che forse nemmeno noi sappiamo in realtà riconoscere come tale.
Quando ci sentiamo annegare di fronte all’inadeguatezza, alla frustrazione e all’abitudine, ogni scintillio pare indicarci la strada per raggiungere una miniera d’oro. Ma se ci rendiamo conto che il filone da seguire è invece dentro di noi, e che l’emergenza è solo un palliativo alla nostra incapacità di darci un progetto, allora forse riusciremo a liquidare questa epoca e i nostri limiti. E sapremo avventurarci per quei sentieri scandendo il tempo solo coi battiti del nostro cuore. Ardente.

“Riducendo la richiesta al suo minimo realistico ci si propone come portatori di un’alternativa: fare uscire quattromila compagni dal carcere. L’importanza del risultato ci spinge allora a coprire la tortuosità del percorso. La lotta non può che essere politica. Una piattaforma di richieste, nulla di inaccettabile, un processo di liberazione circoscritto che viene fatto passare come l’unica soluzione possibile del problema del processo di liberazione complessivo. In fondo è il solito gioco dei super-realisti politici. Le riforme sono immediatamente attingibili. La rivoluzione no. L’utopia turba i sogni dei signori, il dialogo riformista concilia il loro sonno. La loro angoscia attuale è la presenza di quattromila prigionieri politici in Italia, più o meno in contatto con una massa di trentacinquemila prigionieri cosiddetti comuni. Chissà che messi fuori i primi non si possano organizzare ottime scuole di rieducazione sociale per i secondi, una specie di post-carcere a mezzo servizio. Utopia per utopia, l’una cosa vale l’altra. Nella fantasia dell’“a poco a poco” non esistono limiti. […]
Non esiste risolvibilità del problema all’interno della struttura capitalista. Le carceri vanno abbattute in modo totale e definitivo. Non possiamo contrattare una liberazione parziale.
Certo, possiamo imporre una condizione di intollerabilità per lo Stato, tale che – da solo – addivenga ad una parziale soluzione del problema. Ma questa non è contrattazione post-rivoluzionaria, è un momento del conflitto. La resa deve venire da parte dello Stato. Non ci illudiamo che possa essere resa totale, ma un modo qualsiasi di venire a patti. Questo sì. Questo è possibile. E ad imporre questo patteggiamento deve essere il movimento reale, lo scontro di classe, non una decisione di minoranza che si aggancia a quelle frange riformiste che vogliono sfruttare qualsiasi occasione per farsi largo nelle loro strategie di potere.
Non dobbiamo essere noi a chiedere l’amnistia per i quattromila prigionieri politici. Noi dobbiamo chiedere (o imporre?) la distruzione del carcere per tutti, la cancellazione definitiva del concetto di “uomo prigioniero”. È nel processo di lotta per imporre questo metodo del “tutto e subito” che lo Stato può decidere di venire a patti, di concedere una qualche diavoleria legale che si può anche chiamare amnistia, o indulto, o sospensione della pena, o lavoro sociale, o qualsiasi altra cosa. Spetterà a noi – sulla base di una valutazione delle condizioni dello scontro – di accettare o meno.
Ecco perché nella proposta nuda e cruda dell’amnistia c’è il latente desiderio di non andare avanti.
L’enorme pressione morale di quattromila corpi che stanno praticamente morendo in solitudine non può farci chiudere gli occhi davanti all’evidenza. Scegliendo la strada del patteggiamento, della contrattazione con lo Stato, non riusciremo mai a tirarli fuori realmente. Porteremo fuori quattromila simulacri di donne e di uomini che si andranno a collocare in una dimensione in cui ritroveranno sempre le sbarre di un’altra prigione: la prigione della propria inutilità, del proprio svuotamento, del sentirsi costantemente “altrove”, in quel posto dove hanno consegnato la propria identità di rivoluzionari.
Occorre rovesciare l’ignobile teorema che viene proposto: contrattare la liberazione dei compagni per riprendere la lotta, nell’affermazione molto più logica e conseguente: riprendere la lotta per imporre la liberazione dei compagni.”

[Alfredo M. Bonanno, E noi saremo sempre pronti a impadronirci un’altra volta del cielo. Contro l’amnistia, marzo 1984]