La lotta contro la guerra non è opera di pace

Luce Fabbri

I blocchi, la guerra, il terzo fronte, il male minore, tutti questi problemi sono un problema solo, e insolubile per giunta sul terreno degli individui o delle forze puramente materiali.
La domanda da porsi, secondo me, non è: come «vincere» in qualche misura? E neppure solo: come sopravvivere almeno ideologicamente? – ma: qual è la linea d’azione da seguire per preparare, in seno ai prossimi cataclismi, l’azione futura in senso federativo e antistatale? La distinzione può sembrare sottile, ma è necessaria.
Il rifiuto di prender posizione sotto una delle bandiere che con le loro due ombre sembrano coprire il mondo, non può essere solo un atteggiamento negativo, per «salvare l’anima», cioè per esimerci dalla responsabilità di tante future ingiuste morti e potersi presentare domani agli uomini torturati dalla lunga nauseante angoscia con le mani pure. La ripugnanza diffusa per tutto ciò che ricordi in qualche modo il conflitto passato o faccia pensare al conflitto futuro è certamente la base più elementare e quindi più vasta per la lotta contro la guerra, ma è base inerte, che solo può acquistare un valore positivo se si trasforma l’orrore in entusiasmo, il fatalismo in iniziativa. E se il no unisce, il divide.
In altre parole la lotta contro la guerra non può essere «pacifista», né «unitaria»; essa implica un atteggiamento non di semplice resistenza, ma di offensiva, cioè di creazione.
La costruzione di un mondo in cui le cause dei conflitti violenti collettivi siano eliminate non è opera di pace. Anche se iniziata con metodi e mezzi pacifici, presto o tardi sarà considerata dai privilegiati del potere e del denaro come un attacco diretto ai loro interessi ed ostacolata quindi con la violenza. Per questo la lotta contro la guerra è in sé una lotta rivoluzionaria.
Essendo la guerra un corollario obbligato dall’ingiustizia sociale e della volontà di potere, solo può essere eliminata in funzione della conquista della giustizia sociale e della libertà dell’uomo, e non semplicemente in nome della pace. Un atteggiamento meramente negativo conserva l’apparente unità, intorno al minimo denominatore pacifista, solo fino alla vigilia della crisi. E intanto addormenta gli spiriti e sommerge l’iniziativa creatrice in quel desiderio collettivo di quiete e d’inerzia in cui, nei momenti decisivi, qualunque potere costituito trova il suo miglior appoggio.

[L’Adunata dei Refrattari, 5/1/1952]