Nessun lieto fine

«Ci scorre nelle vene troppo sangue annacquato,
di languide parole ci hanno troppo inebriato:
il dolciume retorico d’amor, di fratellanza,
ci penetrò ne l’anima con mendace speranza.
I nostri morti, intanto, dai patiboli atroci
pendono invendicati, e massacri feroci,
e vendette e torture e sanguinosi insulti
ci sferzano la faccia impuniti ed inulti.
Quando più ne l’inerzia noi poltriamo codardi,
cullati dal sogno placido di lieti giorni tardi,
perduti ne l’eteree conquiste vaporose
di comodi ideali a latte, miele e rose,
e ci diciam fratelli in languido abbandono,
e ci tendiam l’olivo di pace e di perdono,
ecco, l’ora propizia coglie il borghese esperto,
(ei che non sa i languori né il tentennare incerto),
e a freddo tradimento, sicuro nell’agguato,
ci conficca nel dorso lo stile avvelenato»

Centosedici anni sono trascorsi da quando sono stati scritti questi versi. Il loro autore è l’anarchico sospettato di essere stato, alcuni anni prima della loro stesura, il «mandante» dell’omicidio di re Umberto I. A rileggerli oggi, sapendo fino a che punto saranno seguiti da rivolte individuali e insurrezioni sociali, sembrano essere ingiustamente esagerati. Tuttavia è evidente che il loro intento fosse assai più quello di spronare, che di rimproverare. Ma oggi, alla luce di quanto (non) sta accadendo, questi versi non suonano terribilmente profetici nel constatare e descrivere l’impotenza in cui versiamo tutti, nessuno escluso? Così come suonano profetiche le parole di un altro anarchico, risalenti a poco meno di un secolo fa, il quale in una sua lettera ammoniva che «l’affare Sacco e Vanzetti è inutile e pericoloso dissimularlo: è una sconfitta umiliante e terribile… È una sconfitta di cui bisogna lavarsi, ricordatelo bene, o le tigri, gli sciacalli forse meglio, dei covi giudiziari repubblicani non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere».
Di sconfitte umilianti e terribili, nel corso di questi ultimi anni, ne abbiamo subite talmente tante, senza mai lavarne davvero nessuna, che in effetti ora sembra non resti altro che piangere. E non avendo più nemmeno una dolce utopia infranta su cui piangere – da tempo barattata in cambio di un’amara realtà più consona ad attirare interesse & consenso – si finisce col piangere sul mancato rispetto della Costituzione, sullo smantellamento della salute pubblica, sulla violazione dei diritti dei lavoratori, sulla diversità di trattamento giuridico riservato ai sovversivi rispetto ai fascisti… Piangere e sbattere i piedi, pensando così di andare alla ricerca di una nuova menzogna edificante, in grado di esorcizzare la scomoda verità. Che se in alto ora si stanno permettendo qualsiasi cosa è solo perché in basso per troppo tempo si è permesso tutto.
E lo si è permesso abituandosi giorno dopo giorno, per usare le parole di un poeta, a «piegar la schiena nel paese dei pigmei per non dispiacere a nessuno». Lo si è permesso alimentando il sentimento collettivo a detrimento della coscienza individuale, preferendo la narrazione mobilitante al pensiero critico, la chiacchierata alla discussione, la preghiera alla bestemmia, lungo le tappe di quella composizione strategica a caccia di consenso popolare che ha portato a sostenere la democrazia diretta spacciandola per anarchia, o a sostituire il bene comune al comunismo. Questo assillo a condividere il sentire comune, sulle barricate eccezionali come nelle latrine quotidiane, produce l’effetto di contrastare chi se ne discosta. Senza rivangare il passato più lontano si pensi solo, ad esempio, a questi ultimi due anni. Non solo si è tollerato che ogni minima libertà venisse proibita, ma in molti, in moltissimi, decisamente in troppi casi ci si è addirittura attivati a fornire la propria collaborazione in tal senso, chi avallando la psicosi emergenziale pandemica nel tentativo di cavalcarla, chi tacciando di «estremismo reazionario» o «complottismo» chiunque osasse uscire dal coro.
Diciamolo chiaramente: il plateale e quasi unanime ossequio cittadino-antagonista davanti alle più deliranti misure anti-pandemiche ha galvanizzato lo Stato, rassicurandolo sulla sua possibilità di potersi ormai permettere qualsiasi cosa. Una volta che l’immaginario istituzionale ha dimostrato di aver trionfato pressoché dappertutto – realizzando il vecchio motto mussoliniano: «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» – non gli resta che una cosa da fare: liquidare gli ultimi scarti dalla norma rimasti in circolazione, compito burocratico da sbrigare il più in fretta possibile al fine di bonificare l’intero territorio. Questi due aspetti vanno di pari passo. Lo Stato non potrebbe calcare così tanto la mano sui pochi sovversivi accusati di armare il proprio braccio, se nella testa di molti sovversivi non fosse già venuta meno l’idea stessa di rivolta individuale. I pochi operai che picchettano o fanno scioperi selvaggi non rischierebbero pene tanto pesanti, se non fosse già passata in molti loro colleghi l’idea che per «insorgere» basta fare un esposto alla magistratura.
Ecco perché purtroppo non ci si può stupire per le pesanti condanne recentemente formulate, o paventate, contro anarchici accusati di aver compiuto azioni dirette (28 anni inflitti a un anarchico ritenuto colpevole di aver commesso un attentato contro una sede della Lega, ergastolo minacciato contro anarchici già condannati a svariati anni per appartenenza alla Federazione Anarchica Informale). Una tolleranza zero che, nelle intenzioni di chi la applica, dovrebbe dissuadere chiunque dal venire meno alle buone e civiche maniere dell’obbedienza. Eppure, come insegna l’esperienza statunitense in tale campo, l’asprezza della repressione non è in grado di impedire i cosiddetti delitti. Perché i conti, con la vita, non tornano mai. Non solo chi è spinto da bisogni disperati o da desideri furiosi a sfidare la legge non traccia preventivi bilanci da ragionieri, ma inoltre l’eventuale consapevolezza del rischio a cui si va incontro non può che portare ad una conclusione: galera per galera, meglio mirare in alto che in basso. Se chi si ribella al potere deve attendersi una repressione sempre più spietata, anche chi esercita il potere deve attendersi una rivolta sempre più spietata.
Nessuno ci salverà, non c’è balsamo che possa lenire le ferite, non esiste un lieto fine ai nostri giorni. Chi vuole una grassa consolazione illusoria può sempre attendere che le masse proletarie si mettano in moto. Chi vuole una magra consolazione reale può sempre attendere una catastrofe che travolga tutti, governanti compresi. Ma chi non può e non vuole essere consolato, farà bene a riflettere su cosa fare, e come, e perché, e con chi. Prima le idee si fanno chiare, prima si possono mettere in pratica.