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Cos’è un’infrastruttura? Qualcosa che sta sotto, celata. Su di essa si erge la costruzione, si solidifica l’organizzazione del mondo. Ciò che sovente critichiamo è ciò che emerge, ciò che è visibile ai nostri occhi. Sotto il livello della critica, nascosta dal manto della neutralità, vi è invece l’ossatura del Dominio.
Diversamente una radicale avversione al regime vigente permette di mettere a fuoco, anche letteralmente, l’infrastruttura. Che siano le linee elettriche che alimentavano la pace sociale della Spagna di Franco o l’apparato industriale del nord Italia che produceva negli anni 43-45 armi per l’esercito nazista, quando la lotta per un modo diverso di esistere diventa senza quartiere nulla resta neutrale. Ci rendiamo davvero conto di vivere in territorio nemico.
Persino un semaforo, a ben guardare, può apparire come un’oppressione inaccettabile. Tutto è complice di quanto, insopportabilmente, esiste. E cosa opporre all’oppressione se non l’attacco? Subirla silenziosamente? O magari subirla rumorosamente. Cambia qualcosa nella nostra coscienza?

E chi difende l’infrastruttura? chi difende lo Stato sommerso, quello che cerca di conservarsi al di là degli esiti elettorali e propagandistici? Ad ogni individuo il gusto della ricerca.
Incredibilmente, però, c’è anche chi ci tiene a rivendicarsi con orgoglio questa responsabilità nel sostenere il presente stato di cose. Si vede che sono stati dimenticati i tempi del caffè Terminus. Quelle illuse mosche cocchiere magari pensano anche di ricavarne un qualche successo elettorale in un’epoca orientata al polarizzarsi delle idee… Per questo il 7 settembre da Acerra, Piombino, Ravenna, Melendugno e dalla Val Susa alcuni lugubri cartelli elettorali rivendicheranno una nuova normalità per l’Italia, quella normalità che trasuda l’orrore del quotidiano massacro. Rivendicheranno quel giorno una parte di disastro anche per il loro cortile di casa. Rivendicheranno di voler fornire ancora combustibile a questa macchina che produce massacri e distruzione.
Come se le vicende di Zaporizhzhia non smentissero definitivamente l’ideologia della fine della storia ricordandoci come ogni lembo di terra può diventare il futuro campo di battaglia; come se non si accumulassero disastri e fallimenti sulle spalle di questa organizzazione sociale. Nella miseria del loro pensiero c’è però spazio solo per il sì. Ad oltranza. Dritti verso il baratro, chi tirerà il freno d’emergenza?

Non riescono a concepire che il no, a volte, apre piuttosto i mondi del possibile. Il no del rifiuto all’obbedienza, il no della non collaborazione, il no di un modo di vivere radicalmente altro. Il no ai giochi elettorali, alle finte soluzioni, al disciplinamento delle idee e delle azioni, alla composizione del nuovo fronte antigovernativo, all’attacco mediatico (o mediatizzato) contro la nocività di turno. Il no all’inerzia e all’apatia.

In passato queste occasioni in cui la miseria del nemico si rendeva plateale solleticavano la fantasia di chi sentiva sgorgare l’odio verso questo mondo direttamente dal basso ventre. A volte la razionalizzazione dei nostri pensieri ci offre solo la possibilità di neutralizzare i nostri desideri più selvaggi grazie alla polizia che ci è stata instillata in testa in tanti anni di sottomissione forzata.
Sapremo abbandonarci ad una smisurata rivolta?