Il colonialismo non è morto

Aimé Cesaire

La prima idea che l’esame della realtà impone è questa: il colonialismo è un regime di sfruttamento forsennato di immense masse umane, che ha origine nella violenza e che si sostiene solo mediante la violenza. So bene che si è cercato di oscurare questa idea iniziale, di distorcerla, che in particolare per esigenze della causa si è voluto fare della colonizzazione un aspetto di un certo dinamismo della civiltà. Ma questa impresa di mistificazione ha sempre meno possibilità di successo e il miglior segno di questo fallimento è dato dal fatto che anche i più ardenti sostenitori dell’azione colonizzatrice hanno una maggiore difficoltà a mantenersi al passo con questa menzogna. […]
Ho detto: colonizzazione, impresa di violenza. Ma anche questo è insufficiente. Dovremmo dire: impresa di una violenza parossistica, impresa di sterminio di un intero popolo. Certo, non tutte le spedizioni coloniali sono riuscite a liquidare ovunque le popolazioni indigene, ma non c’è dubbio che questo sia, anche ove l’evento l’abbia impedito, il culmine della logica intrinseca dell’impresa coloniale. […]
Lo sterminio, perfino il genocidio, è in effetti la logica normale dell’impresa coloniale. Fare piazza pulita, trasformare i territori da occupare in un Sahara umano… Ciò è talmente vero che sono stati i colonizzatori a darci i primi esempi di guerra totale. Qui non esiste una regola per umanizzare la guerra, non esiste una legge da rispettare, non esiste una convenzione internazionale, non esistono armi da vietare, non esistono mezzi sleali da mettere al bando. Una sola parola d’ordine: uccidere, sterminare. La guerra coloniale è la guerra allo stato puro, la «guerra sporca», come è stato detto del conflitto in Indocina, ma tutte le guerre coloniali sono «guerre sporche». […]
Ma, si dirà, tutto ciò appartiene al passato! Sì, in tempi lontani l’azione coloniale era violenza e saccheggio, ma si tratta di vecchie storie… Sono quelli definiti «errori inevitabili» legati ad ogni azione; all’inizio c’è stata la barbarie, ma poi tutto si è moralizzato…
Ebbene, no! La colonizzazione non poteva, non può, prigioniera della sua logica, lavarsi dalla sua tara originaria. Nata dalla violenza e dal furto, essa può continuare a vivere solo di violenza e furto. Clausewitz affermava che la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi. Si potrebbe altrettanto dire, in materia coloniale, che la politica non è altro che la continuazione della guerra e con altri mezzi. È furti e violenze continue. […]
Il colonialismo porta di per sé il terrore. È vero. Ma in sé porta anche, forse ancora più dannoso dei cavilli degli sfruttatori, il disprezzo dell’uomo, l’odio dell’uomo, insomma il razzismo.
Comunque sia, si arriva sempre alla stessa conclusione. Non esiste colonialismo senza razzismo. Quando Hitler manifestò per la prima volta i suoi abomini sulla razza superiore, i popoli europei potevano rimanerne stupiti. Noi altri, popoli coloniali, lo siamo stati ben poco, perché avevamo già sentito quel linguaggio, non dalla bocca di Hitler, ma dalla bocca dei nostri padroni, dalla bocca dei grandi colonizzatori. L’avevamo già sentita, la distinzione tra razze superiori e inferiori! Era in Jules Ferry. Il diritto delle razze superiori di trasformare in schiavi le razze inferiori si trova in tutti e anche in Galliéni. Potrei moltiplicare le citazioni; forse la grande originalità di Hitler è stata semplicemente di applicare ai popoli europei i metodi coloniali che l’Europa aveva fino ad allora applicato, senza battere ciglio e con grande profitto, alle nazioni non europee.
Gli stessi colonizzatori sanno così bene che la colonizzazione è uno sfrenato scatenamento dei peggiori istinti dell’uomo, che alcuni dei suoi teorici, per farne l’apologia, la dichiarano utile proprio a causa di questo scatenamento dell’uomo che essa favorisce. Secondo quest’ottica, la colonizzazione appare come una sorta di gigantesca catarsi collettiva, che libera la società dalle sue tare e la purifica versando all’esterno tendenze socialmente pericolose. In altre parole, la colonizzazione non è più solo uno sfogo per eccesso di popolazione, ma è uno sfogo per sentimenti che è psicologicamente dannoso mantenere repressi. È la «colonizzazione-sfogo». Questa tesi è espressa in un libro di Carl Siger pubblicato nel 1907, intitolato Essai sur la colonisation. Ecco cosa vi si può leggere:
«I paesi nuovi sono un vasto campo aperto alle attività individuali violente che, nelle metropoli, si scontrerebbero con alcuni pregiudizi, con una concezione saggia e regolata della vita, e che nelle colonie possono svilupparsi più liberamente e di conseguenza affermare meglio il loro valore. Quindi, le colonie possono in una certa misura fungere da valvola di sicurezza alla società moderna. Anche se questa utilità fosse la sola, è immensa».
In altre parole, volete rubare, saccheggiare, brutalizzare, stuprare? In Europa è vietato, è punibile per legge. Ma che diavolo, andate nelle colonie! […]
Ma, si dirà, questo è solo un aspetto delle cose. Violenza, sì. Saccheggio, sì. Ma non è così che si devono vedere le cose. Bisogna vederle storicamente, distribuite su periodi considerevoli, e se si è potuto dire che, nonostante tutti i loro crimini, le grandi invasioni barbariche si sono concluse con un rinnovamento della società, la colonizzazione, malgrado i suoi abomini, storicamente parlando ha comunque avuto felici e benefiche conseguenze… […]
Seguiamo velocemente lo schema proposto. È vero che gli indigeni hanno, tutto sommato, beneficiato «della pace, dell’organizzazione, dell’igiene introdotte dai conquistatori»? No, è chiaro che una simile tesi non regge all’esame e che da nessun punto di vista le masse, i popoli, sono stati i beneficiari del sistema introdotto e imposto dai conquistatori.
Non neghiamo l’edificazione di città come Casablanca, lo scavo di strade, la costruzione di ferrovie, la creazione di porti. Neghiamo che da tutta questa politica sia derivato qualcosa di buono per le masse colonizzate, un aumento della felicità per i popoli e un progresso per l’umanità nel suo insieme.
In effetti, cosa caratterizza – non più il colonialismo – ma, all’altro capo della catena, la situazione coloniale? Anzitutto, un livello di vita materiale assai basso. La povertà, la spaventosa miseria, dall’Asia all’Africa, dalle Indie Occidentali al Madagascar, è questo il denominatore comune di tutte le situazioni coloniali. Non esistono territori in cui i salari non siano terribilmente bassi, o la sottoalimentazione non provochi danni catastrofici. […]
La verità attestata dalla storia è lì, verificabile: la colonizzazione ha distrutto completamente civiltà meravigliose: quella degli Inca, quella dei Maya, degli Aztechi. Il colonialismo ha colpito a morte civiltà di cui si ignorano gli ulteriori contributi con cui avrebbero arricchito l’umanità. Si sa quanto la colonizzazione abbia portato in denaro e ricchezze all’Europa. Ma non possiamo stimare quanto l’umanità abbia perso con la scomparsa delle civiltà. A quale stadio del progresso universale saremmo oggi, se tutte queste civiltà avessero potuto continuare a prosperare, a cercare, a trovare… È possibile sognarlo a lungo! Il colonialismo ha spezzato la schiena ad altre civiltà, certo più umili, ma ancora suscettibili di rinnovamento e sviluppo. Sicché è lecito dire che la colonizzazione ha fatto retrocedere la civiltà invece di farla avanzare. Ha decivilizzato sia il colonizzatore che il colonizzato, apparendo così come una gigantesca impresa di inferocimento, non solo dell’Asia o dell’Africa, ma di ritorno anche della stessa Europa. Perché non si può non considerare l’apparizione di fatti come il nazismo hitleriano o il fascismo italiano come tratti di autentica ferocia.

[in La Nouvelle Critique, anno VI, n. 51, gennaio 1954]