«Nessuna giustizia, nessuna pace»
Non si tratta di una rivendicazione, ma di un’affermazione. Non è un’educata richiesta, né un invito formale e nemmeno un seccato rimprovero indirizzato a chi sta in alto. È l’espressione di una constatazione, spesso amara, sempre rabbiosa, frutto dell’esperienza e della logica conseguente, che si diffonde tra chi sta in basso. Serpeggia, si insinua, si allarga e poco alla volta, goccia dopo goccia, monta fino ad esplodere. Non ci può essere pace dove non c’è giustizia. Laddove trionfa l’abuso, il sopruso, l’arroganza, non ci può essere tranquillità. Non ci deve essere tranquillità. Quando ogni dignità, ogni sensibilità, ogni anche minima umana decenza viene calpestata, nulla può continuare come prima, come al solito, come se nulla fosse. Giacché l’ingiustizia è manifesta, è enorme, ed è davanti a noi – non in un libro di storia, non in una pellicola cinematografica, non in un continente lontano – è qui, talmente palese e visibile da ferire gli occhi e il cuore di quanti abbiano ancora occhi e cuore. Con un tale dolore a nulla servono i sedativi, non si seguono né gli appelli alla calma né le ultime puntate delle serie televisive. Le porte vanno sbattute, le aiuole vanno calpestate, le vetrine vanno infrante: solo il fuoco può incenerire l’ingiustizia e recare sollievo. E tanto peggio per gli sbadigli infastiditi degli eterni dormienti.
Da semplice grido lanciato da un anonimo partecipante a una manifestazione di protesta, No justice, no peace è diventato lo slogan che dalla fine degli anni 80 dello scorso secolo rimbomba negli Stati Uniti dopo ogni brutalità commessa dallo Stato contro la popolazione nera. No justice, no peace – poche parole in grado di rivelare una verità talmente ovvia e potente da aver accompagnato come martellante sottofondo la più grande rivolta mai avvenuta negli Stati Uniti, quella che nel 1992 vide una città come Los Angeles bruciare per giorni. Si ricorda quale fu allora l’occasionale scintilla? L’assoluzione dei poliziotti responsabili – no, non di un omicidio – del pestaggio di un nero. In sé si tratta di un episodio purtroppo banalmente quotidiano, di quelli che avvengono innumerevoli volte senza provocare grosse reazioni. Ma quel pestaggio si distinse per qualcosa di particolare per l’epoca, essendo stato casualmente ripreso in un video e poi trasmesso in tutto il paese. Salita per caso alla ribalta, quell’ingiustizia diventò talmente stra-ordinaria da non poter più essere ignorata. Non pochi testimoni oculari dalle versioni contraddittorie, ma milioni di persone videro in maniera inequivocabile cosa fosse accaduto. E reclamarono giustizia. Chi era preposto a farla, il tribunale, ovviamente assolse i poliziotti. Fu questa la goccia che fece traboccare il vaso della rassegnazione, del fatalismo, dell’indifferenza, facendo esplodere tutta quella rabbia: la fine dell’innocenza, l’improvvisa e comune scoperta d’essere stati ingannati, la dimostrazione tangibile che il diritto dello Stato non coincide affatto con ciò che molti si ostinano a chiamare giustizia, essendone la lugubre parodia.
La giustizia amministrata dallo Stato pretende sì di rappresentare ciò che è giusto, ma di fatto attua solo ciò che è funzionale al potere. L’etica dell’individuo, il riflesso della morale, la facoltà dell’anima, l’essenza della virtù, l’armonia del cosmo, l’utilità sociale… tutti questi concetti che in un lontano passato venivano scomodati per descrivere la giustizia non hanno più senso una volta che questa si concretizza nella mera conformità alla legge. Perché la legge non nasce nel cuore e nella testa di ogni singolo individuo, viene scritta dallo Stato e risponde solo alle sue esigenze, serve esclusivamente i suoi interessi. Viene stabilita, decretata, applicata, sospesa, trasgredita, ripristinata, a seconda della convenienza di chi detiene il potere. L’altro ieri in Germania gli ebrei venivano chiusi nei campi di sterminio, perché così stabiliva la legge. Ieri in Sud-Africa vigeva il regime dell’apartheid, perché così stabiliva la legge. Oggi in Iran uomini e donne che ballano facendosi riprendere in un video finiscono in galera, perché così stabilisce la legge.
Facile aggrapparsi alla diversità di contesti storici o politici per poter continuare a credere alle favole; facile, ma inutile. Che si tratti di moderne democrazie occidentali o di retrograde teocrazie orientali, non c’è differenza. Guardate l’immagine di Masha Amini, intubata in un letto di ospedale dopo essere stata massacrata dalla polizia in Iran per non aver indossato il copricapo giusto. Ed ora guardate l’immagine di Tyre Nichols, intubato in un letto di ospedale dopo essere stato massacrato dalla polizia negli Stati Uniti per avere il colore della pelle sbagliato.
Entrambi sono morti poco dopo quell’ultimo scatto. La loro unica colpa è stata quella di essere presi di mira da agenti dello Stato, addestrati e pagati dallo Stato per svolgere il loro dovere, che è quello di far obbedire alle leggi dello Stato. Tutto qui – giustizia è solo sinonimo di obbedienza, il resto sono chiacchiere.
Sarebbe bello pensare che chiunque si erge in difesa dello «stato di diritto», o denuncia lo «stato d’eccezione», o si batte per restaurare una «costituzione tradita», in fondo sia un nobile cavaliere a cui si può al massimo rinfacciare una certa ingenuità. In realtà, quasi sempre si tratta di ignavia. È infatti per indolenza e viltà che si persiste ad attribuire allo Stato il compito di realizzare l’ideale della Giustizia, laddove è palese come lo Stato persegua esclusivamente i propri interessi. Più si insiste ad invocare il diritto per difendere le vittime, più si giustificano e si perpetuano i carnefici.
Nessuna giustizia può esistere all’ombra dello Stato, nessuna pace deve regnare nei suoi palazzi, nelle sue corti, nelle sue strade. Dopo la morte di Masha Amini è in corso in Iran quella che alcuni chiamano ribellione, altri sommossa, altri ancora rivoluzione. Altre donne sono già state trucidate, alcuni manifestanti sono giustiziati, molti altri vengono arrestati e condannati, il governo promette di massacrare tutti coloro che stanno protestando, eppure i cortei continuano, gli assalti continuano, gli scontri continuano. L’ultima goccia sta talmente facendo traboccare il vaso che per placarne il sommovimento l’ayatollah Kamenei ha annunciato che verrà concessa la grazia a migliaia di prigionieri. Mentre negli Stati Uniti si è talmente ingozzati di immagini che riprendono le brutalità delle forze dell’ordine da esserne anestetizzati; un pestaggio non fa più nemmeno notizia, un omicidio sì, ma è cronaca abituale (ovvero, a cui abituarsi).
Nella «terra dei morti» nota come Italia pare proprio non ci sia limite al peggio. L’odierna caciara parlamentare e mediatica su quello che è diventato il «caso Cospito» ne è l’ennesima controprova. Ad un’opposizione che strumentalizza la protesta dell’anarchico prigioniero per attaccare il governo (basti pensare ad un Andrea Orlando che si reca a Sassari nel carcere in cui è detenuto per poi dichiarare davanti alle telecamere che compito dello Stato è quello di prevenire i suicidi e quindi di salvaguardare la vita dei reclusi, proprio lui che nel 2017 da Ministro della Giustizia non mosse un dito quando l’indipendentista sardo di 74 anni Salvatore “Doddore” Meloni morì dopo 68 giorni di sciopero della fame e 35 della sete), reagisce un governo che a sua volta la strumentalizza sia per zittire l’opposizione (tutti uniti davanti a chi fa il gioco della mafia) sia per portare a termine la soluzione finale del «problema anarchico» (inventandosi l’ennesima emergenza da debellare, dopo quella dei «no-vax» e quella dei «sostenitori di Putin»).
E davanti a questo squallido, volgare, atroce spettacolo, cosa rimarrebbe da fare? Chiedere l’intervento del «signor Bergoglio»? Stracciarsi le vesti per l’incostituzionalità dell’art. 41 bis? Pretendere che lo Stato rispetti le sue stesse leggi? Ma, come diceva un poeta, un mare di dolore non è un palcoscenico, un uomo che grida non è un orso che balla…
E allora per Alfredo Cospito, i cui giorni su questa terra stanno per finire, ucciso dall’arroganza politico-giuridica: nessuna giustizia, nessuna pace. Per Camilla Canepa, morta a Genova dopo essere stata costretta a iniettarsi uno pseudo-vaccino, uccisa dall’arroganza medico-scientifica: nessuna giustizia, nessuna pace. Per Luana D’Orazio, stritolata a Prato da un macchinario privato di sistemi di sicurezza per renderlo più redditizio, uccisa dall’arroganza imprenditoriale: nessuna giustizia, nessuna pace. Per Abd Elsalam Ahmed Eldanf, investito a Piacenza da un crumiro durante un picchetto, ucciso dall’arroganza del servilismo nei confronti dei padroni: nessuna giustizia, nessuna pace. Per Ysuf Ali Kanneh, annegato nel canale di Sicilia mentre con la sua famiglia cercava una vita più fortunata, ucciso dall’arroganza delle politiche anti-immigrazione volute da tutti i governi: nessuna giustizia, nessuna pace. Per Salvatore Piscitelli e gli altri detenuti massacrati nel carcere di Modena, uccisi dall’arroganza poliziesca: nessuna giustizia, nessuna pace. Per Antonio Schiavone, il primo operaio della Thyssen Krupp bruciato vivo, ucciso dall’arroganza capitalista: nessuna giustizia, nessuna pace.
Quanto rischia d’essere infinito questo elenco, quanto la fila di mattoni che innalza i muri della nostra ignavia?