Meri ingranaggi?
Günther Anders
Naturalmente ci sono ancora migliaia e migliaia di bruti, sadici, servi, picchiatori, torturatori e assassini veri e propri, nel senso inequivocabile e arcaico del termine, che vivono in mezzo a noi. I responsabili della produzione di cadaveri non furono tutti «burocrati assassini». Non volendo sporcarsi le mani, dovettero servirsi di esecutori diretti. Ed essi furono molte migliaia e a loro, grazie al nazionalsocialismo, fu offerta – in una misura mai verificatasi in passato – la chance della disumanità legalizzata; migliaia e migliaia d’individui che cogliendo l’opportunità di crimini considerati non solo leciti ma – vedi Himmler – dei doveri sacri, non resistettero alla tentazione di godere quotidianamente della tortura e dell’assassinio «manuali». Così com’è sbagliato vedere le vittime solo come massa umana, è altrettanto sbagliato considerare gli assassini come meri «ingranaggi» della colossale macchina omicida. Anche gli assassini furono singoli che sfruttarono l’occasione della macchina omicida per soddisfare il loro personale sadismo. Anche loro non devono essere spersonalizzati, anche loro, pur non essendo «persone» kantianamente morali, sono stati esseri singoli cui, per dirla hegelianamente, spetta il «diritto» d’essere chiamati in causa in prima persona.
La parola «rimozione» riempie giornali, riviste, programmi radiofonici. I trentasei anni trascorsi da allora sarebbero stati «anni della rimozione». Ma è proprio vero che ora il «rimosso» è affiorato? Che dopo un periodo così lungo di latenza, è iniziata improvvisamente una seduta terapeutica per centomila se non per milioni di persone? Ne dubito.
Parlare di «rimozione» presuppone che in passato sia stata fatta un’esperienza che non poteva essere ricordata perché inaccettabile e non elaborabile. Ha dunque come presupposto un trauma. È così?
Qui non si tratta solo di un’incapacità di ricordare, non solo di un’«incapacità di elaborare il lutto»; l’incapacità va invece datata molto tempo prima: furono già incapaci di vivere come orrore l’indicibile che mettevano in atto o di cui erano testimoni, di percepire e considerare l’orrore come orrore. Non solo non ci sono ricordi ma non ci sono nemmeno traumi. Furono indifferenti o si assuefecero all’indifferenza. Comunque, se non c’è ferita, è inutile che si formi la crosta.
Ciò che vale per i torturatori e gli assassini veri e propri vale, mutatis mutandis, anche per i testimoni e i conniventi della de-ebraizzazione. Dunque, quasi per tutti. Nessuno, in Germania e in Austria, nei primi anni quaranta, avrebbe potuto fare a meno di vedere, constatare, sapere che i loro paesi, in cui aveva vissuto più di un milione di ebrei, erano stati, con raccapricciante eufemismo (che comunque non infastidiva nessuno), purificati dagli ebrei. Lo avevano rimosso? Troppa, troppa grazia, l’espressione presuppone che intimamente fossero davvero sconvolti e turbati. Ma non fu così. Quanto piuttosto ciò che non c’è non si nota, e la loro «totalitarizzazione» fu tale che di fatto non videro ciò che non dovevano vedere; anzi non percepirono ciò che non dovevano percepire. Era stata loro tolta ogni autonomia emozionale e intellettuale.
La stessa cosa vale per i tedeschi subito dopo il 1945. Allora, vale a dire trentacinque anni fa, era impossibile non confrontarsi con le immagini, i libri, le riprese dei lager, dei forni, delle montagne di cadaveri. I film girati dagli alleati dopo la liberazione dei campi di concentramento non avrebbero forse dovuto trasformarsi in incubi collettivi? Niente di tutto questo. Di nuovo: le immagini non furono percepite, quindi non fu neppure necessario rimuoverle. Non solo non furono percepite perché bisognava innanzi tutto disseppellire se stessi dalle macerie; o perché, scampati a stento, non si voleva vedere o sapere qualcosa di coloro che non erano scampati; o perché si preferiva non ricordare ciò che non molto tempo prima era stato osannato istericamente; o perché, nei dodici anni, la capacità di vergognarsi era stata sistematicamente estirpata a bastonate, e la mancanza di vergogna per dodici anni inculcata a bastonate come un valore; ma soprattutto – qui, di nuovo, riaffiora il problema della «personalizzazione» – perché le fotografie mostravano troppi cadaveri e l’orrore davanti alla morte, anche davanti al crimine, decresce all’aumentare del numero dei cadaveri mostrati; e perché nelle immagini erano sempre stati fissati solo gli esiti del crimine, dunque le montagne di cadaveri (e non potevano mostrare nient’altro), ma non i criminali in actu e non le vittime in actu o, meglio in passione del loro «trattamento»; e sempre solo cadaveri anonimi, non i cadaveri di persone conosciute in vita o che, addirittura, erano state dei vicini. Quando poi non si trattava d’immagini ma di parole, si ascoltava o si leggeva sempre soltanto la nuda, esangue cifra di sei milioni, non il gemito dei torturati e gli sghignazzi dei torturatori moltiplicati per sei milioni o anche solo per sei mila o anche solo per sei. La cifra fu assunta e considerata come un’entità analoga al megacorpse, non si moltiplicarono i sei milioni per uno. Poiché il messaggio era stato ridotto alla smisuratezza della cifra, non era arrivato per trentatré anni alle orecchie, agli occhi e ai cuori. Affinché i fatti «arrivassero» era necessario che la limitazione al risultato e la «riduzione allo smisurato» fossero revocati. Ed è ciò che ora è stato fatto, qui sta il merito del film. Dobbiamo ringraziare questa bistrattata riduzione cinematografica se oggi in milioni – e questa volta intendo, eccezionalmente, esseri viventi – conoscono la verità. Mentre il semplice racconto dei fatti, persino il loro conteggio statistico, non sono riusciti a stimolare e a plasmare la capacità immaginativa, il film Holocaust lo ha fatto. La figura immaginaria di un singolo torturato di cui conosciamo la vita (fittizia), e che abbiamo imparato ad amare, rivela dei milioni di morti molto di più di quanto avrebbe potuto rivelare, anche di un solo individuo, la loro addizione milionaria.
[Dopo Holocaust, 1979]