Fuori dal branco

Ignazio Silone

Perché il nostro distacco nondimeno persiste? Mi si permetta di avvertire che sarebbe ingiurioso cercarne la causa nell’orgoglio, nel rispetto umano, o in qualche interesse. Forse non siamo immuni da debolezze del genere, ma in altri campi. Nei riguardi della Fede la spiegazione della nostra perplessità è meno triviale. Per capirla non bisogna limitarsi alla considerazione del movente iniziale della rottura, ma riflettere a quello che successivamente avviene, in casi simili, per il solo fatto dell’estraniazione, nella coscienza dell’uomo che si allontana dalla Chiesa, o da altra organizzazione equivalente, anche politica. A meno che il ribelle, nel momento in cui si allontana, non cada in catalessi, è inevitabile che, col passare del tempo, l’area del dissenso vieppiù si estenda. Per quale determinismo? Non sempre e non necessariamente per il livore, il risentimento, l’astio del “rinnegato”; ma semplicemente perché ogni realtà, vista dal di fuori cambia aspetto. Forse non si è riflettuto abbastanza al fatto che il vincolo disciplinare e la mera frequentazione, anche passiva, di una collettività, sono elementi essenziali di una docile acquiescenza alle credenze comuni. Non intendo dire che, una volta “fuori”, i dogmi religiosi appaiano all’improvviso artificiosi e arbitrari; no, essi non perdono subito il loro prestigio, il loro fascino, la loro plausibilità; ma, presto o tardi, finiscono col manifestarsi per quello che sono: le verità proprie ed esclusive della Chiesa, il suo patrimonio spirituale, quello che la distingue dalle altre chiese, anche cristiane; in una parola, la sua ideologia. Non più, dunque, messaggio del Padre ai figli, a tutti i figli, limpida luce naturale scoperta nascendo, bene comune, verità universale, evidente, irresistibile a ogni intelligenza in buona fede; ma prodotto storico complesso, prodotto di una determinata cultura, anzi amalgama di varie culture, elaborazione millenaria di una comunità chiusa, in permanente travaglio interno e in lotta e concorrenza con altre. Infine, considerata con benevolenza: una nobilissima, una veneranda sovrastruttura. Ma che diventa il povero Cristo in una sovrastruttura? Si capisce che l’ingenuità perduta difficilmente si ricupera e che neanche può essere decentemente rimpianta. La si può simulare? Dopo essere passati per quella esperienza, tornare a fingere di accettare un sistema di dogmi la cui validità non è più riconosciuta in assoluto, sarebbe sopraffare la ragione, violare la coscienza, mentire a sé e agli altri, offendere Dio. Nessuno ce lo può chiedere; nessuna lusinga o violenza, nessuno sforzo di buona volontà può imporcelo.

[L’avventura di un povero cristiano, 1968]