Humour nero
Annie Le Brun
Mentre le istituzioni di mezzo mondo si stanno preparando a fare la festa al surrealismo per il suo centesimo anniversario, i pochi irriducibili sopravvissuti di coloro che presero parte al movimento surrealista originale stanno scomparendo uno ad una. Il mese di luglio è stato micidiale. Il 25 è morto Sergio Lima (1939) che, dopo essersi recato a Parigi nel 1961 espressamente per incontrare André Breton, per oltre 60 anni ha animato il surrealismo in Brasile. Il 29 ci ha lasciato Annie Le Brun (1942) che, dopo aver frequentato gli ambienti anarchici ed aver conosciuto Breton nel 1963, ha trascorso l’intera sua vita a battersi in difesa dell’«infrangibile nucleo notturno» del desiderio. Per entrambi, il surrealismo è stato il lampo che ha folgorato la loro adolescenza, quell’età ingrata che non hanno mai rinnegato pur di trovare posto in questo mondo.
Rendiamo qui omaggio ad Annie Le Brun pubblicando il suo intervento al colloquio di Cerisey, tenutosi nel luglio del 1966 e dedicato al surrealismo. «Vai tu, sarai la mia voce» – le aveva detto un Breton sfinito, ormai giunto alle soglie della vita.
Il gesto clamoroso di Arthur Cravan, invitato a tenere una conferenza sull’humour a New York, che salì sul palco completamente ubriaco, e cominciò a spogliarsi aspettando che la sala si svuotasse e che la polizia venisse a prelevarlo, ha reso difficile il compito a chiunque, in seguito, si proponesse di parlare dell’humour. Questa manifestazione estrema di humour sull’humour esprime bene la vanità di qualunque spiegazione generica, e il segno di quel senso di inutilità teatrale di ogni cosa, che Jacques Vaché individuava essere il senso profondo dell’humour. Chi ha colto pienamente il significato dissolvente di questa sfida di grande portata mostra, malgrado tutto, grande reticenza a voler forzare un ambito all’interno del quale alcuni morti sorridono ancora della loro vita e della loro morte, così come della nostra vita e della nostra morte. Tuttavia, in un momento in cui la nozione di humour nero, considerata nei suoi limiti più ristretti, conosce grande favore e l’humour nero è di moda, quando la battuta macabra è inflazionata e, di conseguenza, l’idea di humour nero è inevitabilmente neutralizzata, sembra che la recente riedizione dell’antologia di André Breton, per la forza degli spiriti che presenta, così come per l’immensa speranza nello spirito umano che il suo autore ha saputo cogliere nel cuore stesso delle scelte più disperate di un’avventura che bisogna pur tentare, anche a prezzo di rischi più grandi, pro e contro se stessi, per tutto ciò che propone, sembra dunque che questa antologia si ponga oggi, paradossalmente, all’opposto di questa idea di humour nero entrata nel circuito commerciale e sembra essere una violenta smentita a tutto ciò che vuole fare dell’humour nero un nuovo genere di scherzo che si vende bene. Così, a partire da questo stesso contrasto, e solo da questo (che partecipa d’altronde al movimento di falsa liberazione, caratteristico dell’epoca in cui viviamo), non ci sembra del tutto gratuito attardarci su questi terreni poco esplorati da cui sboccia il fiore fosforescente dell’humour nero.
Definire l’humour non è più semplice che definire la poesia, così come non è possibile che l’analisi, sempre distaccata, si affanni inutilmente a tentare di fissare scenari che il vento della passione crea e dissolve, ma forse ci sarà permesso rintracciare la linea ininterrotta del fascino che l’humour nero non ha mai smesso di esercitare sul surrealismo, forse ci sarà concesso di intravedere quale profonda necessità abbia condotto Breton a concepire e chiarire questa nozione di humour nero come espressione della più grande insubordinazione, capace di affermarsi negli animi più diversi, e a partire da ciò potremo insistere a nostra volta sui valori sovversivi e liberatori dell’humour nero, che lo pongono in maniera del tutto naturale al culmine dell’avventura umana.
Grazie a questa forza che Lichtenberg non poteva concepire senza parafulmine, grazie a questa idea della vita che – a detta di Jacques Rigaut – «non vale la pena che si faccia lo sforzo di lasciarla», e grazie a quel trasformatore di Marcel Duchamp «destinato ad utilizzare le piccole energie sprecate, come il riso, le lacrime, l’eiaculazione, i sospiri», sembra che l’aria si sia d’incanto purificata dal rumore di moneta corrente degli scherzi comuni, dalle scorie della superficialità così come dalle nebbie del sentimentalismo. La rara qualità di quest’aria, subito divenuta respirabile, spiega senza dubbio la necessità che ha portato André Breton, nel 1939, a definire le caratteristiche di un’attitudine dello spirito, di un’attitudine verso la vita, che aveva già precedentemente attirato la sua attenzione, e che in seguito egli non cesserà di riconoscere come una delle più affascinanti che l’uomo ha la libertà di assumere. Dopo l’accurata indagine sviluppata nell’antologia ora ristampata, il nostro problema non è più di definire i termini dell’humour nero, né di analizzare i diversi comportamenti cui essi corrispondono. Prima di tutto bisogna dire e ripetere che André Breton è l’inventore di questa nozione di humour nero che nel 1939, come precisa ancora nella sua ultima prefazione, «era senza senso». Bisogna sottolinearlo, poiché il fatto d’aver saputo scoprire così presto e portare alla luce del sole un concetto che sottintendeva numerose manifestazioni dello spirito moderno rivela la grande capacità di Breton di penetrare la sua epoca, il che ci permetterà d’altra parte di comprendere meglio la grande risonanza che l’humour nero ha sempre trovato nel più profondo pensiero surrealista, e di avvicinarci un po’ di più alla sorgente delle scintille a lunga gittata di questo raro piacere.
Quando, nel 1939, l’espressione humour nero irruppe nel campo delle idee, la questione dell’humour non era nuova, non più del suo stretto legame con l’evoluzione dell’arte e del pensiero occidentali e, come oggi, anche allora era certamente un luogo comune ricordarne i numerosi antecedenti che vanno dall’ateismo al dandismo, passando per l’ironia romantica. Comunque, André Breton aveva già dato un contributo decisivo per una conoscenza dell’humour molto meno empirica e meno approssimativa delle definizioni eleganti, ma sempre insufficienti, allora in corso.
In effetti, fino al 1939, André Breton aveva affrontato questo problema dal punto di vista hegeliano dell’humour oggettivo, nel senso di «sintesi dell’imitazione della natura nelle sue forme accidentali, da una parte, e dell’humour, dall’altra; dell’humour in quanto paradossale trionfo del principio del piacere sulle condizioni reali». La questione per noi è sapere se l’espressione di humour nero apporti alla medesima nozione qualcosa di più della semplice sfumatura affettiva di colore. Questo cambiamento nella terminologia è infatti altamente rivelatore della natura profonda di ciò che André Breton intende precisare e indicare come un filone raro e prezioso che conduce, in maniera del tutto naturale, da Sade a Duchamp, da Lichtenberg a Vaché. È da sottolineare d’altro canto che, dal 1935, nel corso di una conferenza tenuta a Praga sulla «posizione surrealista dell’oggetto», André Breton aveva constatato l’insufficienza di ciò che si intendeva con l’idea di humour oggettivo, chiamato a sfiorare solo occasionalmente le frontiere del meraviglioso, ma soprattutto a infrangersi contro di esse. In effetti, l’humour oggettivo, nel senso hegeliano del termine, è senza dubbio un’espressione della soggettività vittoriosa nei suoi rapporti con il mondo esterno, ma è soprattutto una vittoria che vuol esser troppo perfetta per non deformare, una volta di più, l’immagine reale e profonda di questi rapporti, dal momento che essi non vengono vissuti secondo il metodo della risoluzione, ma piuttosto secondo quello della contraddizione. Ogni movimento della soggettività verso il mondo esterno è seguito da un’ombra che nasce dagli inevitabili scontri dell’humour oggettivo contro la sfera del meraviglioso. Quest’ombra, che supera i più arditi tentativi della soggettività di penetrare ciò che la circonda, scopre all’interno di ogni oggetto una nuova oscurità che esige, giustamente, una nuova lucidità, affinché lo spirito non sprofondi nel tragico o nel ridicolo di un’impotenza accettata. Questa lucidità, mai semplicemente oggettiva e, peraltro, mai impressionista, sarebbe l’humour nero.
È la lucidità, in effetti, a caratterizzare maggiormente l’atteggiamento di quanti hanno saputo penetrare nel profondo la realtà esterna, con il sentimento più o meno cosciente che il dinamismo che consentiva loro di impadronirsene, in un battibaleno, era quello della contraddizione; contraddizione permanente che la paura dell’avvenire, e di conseguenza le abitudini di sentire come quelle di pensare, tutte le strutture sociali, tutte le forze organizzatrici riescono bene a nascondere in ogni aspetto di una vita che badano a mantenere sotto la loro determinazione. Qui occorre infine sottolineare che la consapevolezza di André Breton, nel 1939, di un sempre possibile capovolgimento dei rapporti convenzionali della realtà e dell’io, supposti dalla nozione di humour nero, non segna alcun progresso dialettico dell’idea di humour oggettivo. L’humour nero non è una nuova categoria con la quale l’humour oggettivo, pensava Breton nel 1935, deve fondersi e neppure «uno dei poli di attrazione di tutte le ricerche dell’arte moderna»; l’humour nero, al contrario, può porsi rispetto all’humour oggettivo come la coscienza stessa dell’incapacità di comprendere il mondo, come l’assunzione esatta del principio di contraddizione con cui si scontra sempre ogni coscienza della vita.
Accennate le distanze e i rapporti che intercorrono tra l’humour oggettivo e l’humour nero, l’uscita alla luce del sole di quest’ultimo modo di porsi, essendone giudice e parte in causa, pare fondamentale nella storia del pensiero; per questo occorre considerare la portata della sfida dell’humour nero insistendo sulla forza contaminatrice di tutto ciò cui esso si oppone, vale a dire il male di vivere di fronte al quale tutte le forze razionali di consolazione non possono che arrendersi.
«Siamo in ritardo, ma tanto peggio! Mordiamo i morti e lanciamo ai vivi impossibili segnali ai quali tuttavia attribuirei un senso nettamente negativo. La battaglia infuria… Ma lasciamo qui le nostre impronte di cani» – esclama Duprey in La Foresta sacrilega (atto II, scena IV).
In quanto valutazione pericolosa dei segni contrari, in quanto lacerazione tragicamente vissuta ma non subita, e soprattutto in quanto incontro esemplare delle forze della morte e delle forze del piacere, l’humour nero non poteva mancare di toccare il surrealismo nel cuore stesso delle sue preoccupazioni, nella sua ricerca di tutti i ponti che l’uomo tenta di gettare tra i campi magnetici della realtà e del piacere. Poiché esso è un rifiuto alla fuga davanti alla contraddizione, poiché realizza nel senso della vita la sintesi contraddittoria di tutto ciò che vi si oppone, l’humour nero si iscrive allora molto lontano sull’orizzonte del divenire umano, in quanto il grado di intensità che assume è in rapporto esatto con il punto di fusione che raggiunge. Un simile atteggiamento assume la contraddizione nei suoi termini più vivi, senza eluderla e contrapponendovi sempre l’affermazione contraddittoria del piacere come uno scintillante ponte di salvezza lanciato sopra il vuoto.
Per fare un solo esempio, ricorderei la pericolosa festa che si diede scrupolosamente Jacques Rigaut dopo aver annunciato: «Sarò serio come il piacere… e… ciò che importa è aver preso la decisione di morire, e non che io muoia.» Commenterà così la morte che da sempre si era preparato: «Ecco insieme l’atto più assurdo e la fantasia al suo culmine, e la disinvoltura oltre i limiti del sonno, e il compromesso più puro». In questo modo si prendono le distanze più grandi da ciò che più colpisce.
L’idea del male, di tutte le forze che si oppongono al desiderio, il sentimento dei limiti, come quello sempre vivo della morte, sono proiettili che l’humour nero riceve in pieno petto, e che si premura di contemplare come si trattasse del nocciolo di un frutto rosso appena scoperto.
È da questa fragorosa irruzione del piacere, nel momento in cui meno lo si aspetta, che l’humour nero attinge l’estrema efficacia della sua rivolta.
Espressione di un’insubordinazione permanente, che nasce dal più profondo dell’essere, l’humour nero trova la sua più viva affermazione quando incontra la poesia.
«Dopodiché gli anni potranno passare come un fiore di soffione, le dita dei piedi potranno scostarsi le une dalle altre, come una donna che divorzia perché suo marito di notte rosicchia i piedi del tavolo, e le museruole potranno cacciare i maggiolini nei deserti di bauli a doppio fondo» – scrive Benjamin Péret nella poesia intitolata Pain Rassis.
Si tratta in questo caso di una ribellione che supera di molto i limiti del genere nero a causa del relais folgorante che prende il piacere in questo modo di intendere la vita. Là dove il genere nero esprimeva la rivolta all’ordine stabilito delle cose, l’humour nero introduce una rivolta di secondo grado, così come si parla dei gradi di una ustione, rivolta totale dell’io che rifiuta di essere affetto dalla propria sensibilità. In questo senso l’humour nero può sembrare un’indomabile opera di sdrammatizzazione del dramma, che nasce dallo scontro dell’io e delle forze restrittive dell’esistenza. Il suo campo d’azione è in realtà molto vasto: tutti i muri contro cui la pienezza della vita rischia di infrangersi, diventano obiettivi di fronte ai quali non si arrenderà mai. All’insieme delle nozioni repressive (dall’ostacolo più evidente, quello della morte, a tutte quelle che corrodono la libertà di gioire, dalle ingiustizie sociali ai principi che mutilano il pensiero discorsivo), l’humour nero oppone un clima di sovversione affettiva ed intellettuale che rischia di minare fortemente la salute di tutto ciò che si crede sano.
Come segno della forza di questo dinamismo si può considerare l’evoluzione stessa dell’humour nero, nelle sue forme più profonde, che col tempo si ritrae a poco a poco dalle sponde comuni del macabro e tende, da qui, a mettere in evidenza in tutte le manifestazioni del pensiero e della vita il desiderio, la necessità di una sintesi contraddittoria che sembra essere il segreto cercato dall’uomo sia nelle avventure dell’amore che in quelle dell’arte.
L’humour nero può sembrare, così come esiste il senso del tatto, l’ultimo senso della rivolta, abbastanza potente da sdrammatizzare se stesso e da approfondirsi, abbandonando le sue forme più superficiali, fino a indurre a ripensare la condizione umana in nome del piacere (penso qui a Jarry, Vaché, Duchamp)… Assunzione della contraddizione esistenziale, sfida contraddittoria alla lacerazione continua della vita, rivolta che rifiuta infine di viversi sotto i colori del dramma, l’humour nero diventa l’espressione stessa del gran rifiuto, perché brilla ai soli fuochi del piacere in rivolta.
«Sono tanto bruto da darmi un pugno sui denti e sottile fino alla nevrastenia», dirà Arthur Cravan. E Picabia constata che «i letti sono sempre più pallidi dei morti». In ogni istante l’humour nero denuncia il ritardo, l’insufficienza, il morso a vuoto di tutti i comportamenti predeterminati. In effetti, se può mettere in evidenza l’irrisorietà di tutti i gesti, di tutti i sentimenti e di tutti i pensieri dell’uomo civilizzato, è perché si trova in presa diretta con la corrente vitale che cerca di negare l’impossibilità di vivere, cioè col senso del piacere. Da qui, senza dubbio, l’impressione di irriducibilità che lo accompagna, e che può esaltare ogni individuo. A questo titolo, in quanto affermazione inevitabilmente sovversiva del piacere, l’humour nero partecipa, al massimo grado ed in modo del tutto naturale, all’avventura surrealista, la quale tende a considerare come sue tutte le vittorie del piacere sulla realtà.
Così, non è sufficiente individuare i punti d’impatto dell’humour nero sui muri della realtà, ma piuttosto scoprire i mezzi di difesa e di insolente sopravvivenza della coscienza assalita da tutte le parti.
Nato da una percezione ribelle delle condizioni della vita, l’humour nero è innanzitutto la rappresentazione di una realtà in stato di crisi, che dimostra l’impossibilità per l’uomo di adattarsi all’esistenza (intendo nelle sue forme attuali), e nello stesso tempo un ondeggiamento del mondo reale sotto la spinta prodigiosa delle forze più profonde della vita, che cercano di affermarsi a dispetto di tutto.
«Gli equilibri sono rari, la terra che gira su se stessa in ventiquattr’ore non è il solo polo di attrazione» – scrisse Breton a proposito di Jacques Vaché. L’humour nero fa esplodere da ogni parte il mondo oggettivo e svela la vita attraverso la griglia delle sue fessure, nella misura allucinatoria sperimentata da Swift, secondo la quale «gli elefanti sono generalmente disegnati più piccoli che in natura, ma una pulce sempre più grande». L’oggettività del mondo è allora gonfiata al punto che l’equilibrio dei simili e dei contrari è rotto, al punto che l’oggetto, l’avvenimento esterno, assumono un’importanza non più attendibile. Intervento perturbatore che illumina, alla luce della più intensa lucidità, la prigione dai muri che si restringono, che ogni oggetto e ogni fatto tende a divenire per quelli che hanno l’estrema imprudenza di accettare il mondo così com’è. Tutto a un tratto è la fine dei rapporti a senso unico della percezione e della rappresentazione, e il curioso animale di Kafka ne illustra il totale sconvolgimento: «Possiedo un curioso animale, metà agnello e metà gatto. All’inizio era molto più agnello che gatto, ora è entrambi in due parti uguali. Ha preso del gatto la testa e le unghie, dell’agnello la taglia e la forma; da entrambi gli occhi, che sono selvaggi e mutevoli e i movimenti, che stanno tra lo scarto e il balzo».
L’humour nero dilata il mondo esterno fino a trovare il punto di tangenza della sua inesistenza; il mondo reale è allora tagliato da molteplici saette scoccate dai punti toccati dal piacere in rivolta. L’atteggiamento di Jacques Vaché durante la guerra illustra esattamente il modo in cui questa forma di rivolta trovi le sue forze nella lacerazione che l’ha generata, e progredisca nell’approfondimento delirante di questa lacerazione. «Questi – dice André Breton – sfoggiava un’uniforme stupendamente tagliata e, per giunta, tagliata in due, un’uniforme in certo qual modo sintesi di quella degli alleati e di quella dell’esercito nemico, e la cui unione tutta superficiale è ottenuta col rinforzo di grandi tasche esterne, di budrieri chiari, di carte di stato maggiore, e di un insieme di foulard con tutti i colori dell’orizzonte».
Ecco dunque che la realtà, in tal modo messa in crisi, presuppone una totale critica del meccanismo mentale e affettivo su cui poggia la vita sociale, quella che si definisce vita quotidiana. Questo meccanismo, in fin dei conti sempre repressivo, si trova pericolosamente minacciato e si trova a non aver più che una presa fittizia su colui che lo denuncia. La scintilla dell’humour nel cuore della più oscura realtà corrisponde, in effetti, ad un’intensa innervazione del mondo da parte del piacere, innervazione effimera, ma che possiede la qualità estrema di essere totale.
Tuttavia questo non è che un primo aspetto della forza sovversiva dell’humour nero. Lo stato di crisi che provoca colpisce il mondo sia nel suo divenire sia in tutto ciò che implica una rinuncia al piacere. «È vero che il mondo riesce a bloccare tutte le macchine infernali. Non esiste il tempo perduto? Tempo? S’intende gli stivali delle sette leghe. Le scatole di acquarelli si deteriorano» – scrive ancora André Breton in un testo per Jacques Vaché.
Ancora una volta, il momento attuale è straziato tra il piacere e la morte e, in questo senso, il grande favore che conosce oggi l’humour nero, nelle sue manifestazioni più limitate (penso alle storie macabre del genere Maria-la-Sanguinaria) lascia pensare che ognuno trovi in esso un piacere tra i più completi. Questo piacere non consiste in nient’altro che nel trasformare la morte in un gioco familiare, ed ora diventato comune, di cui Picabia aveva proposto un modello di gran lusso: «Dopo la nostra morte dovrebbero metterci in una palla, questa palla sarà di legno multicolore. La si farà rotolare per portarla al cimitero ed i becchini incaricati di questa incombenza porteranno guanti trasparenti per conservare agli amanti il ricordo delle carezze». Questo gioco con la morte, cui sono riconducibili in fin dei conti tutte le forme dell’humour nero, neutralizza il dolore che la morte suscita sempre nello stesso modo, ma rappresenta soprattutto una formidabile prova dell’io; «solo intermediario per cui il piacere può diventare reale» (Marcuse), per liberarsi del tempo, anticipazione vivente della morte, che giustifica – lo ripeto ancora – tutte le repressioni, e che rende doloroso il piacere stesso.
Qui il piacere riappare nel cuore stesso di ciò che intende negarlo per il più grande godimento del momento presente. Il piacere squarcerà il tempo, così come il bouquet di rose rosse tradisce e polverizza la velocità della corsa delle diecimila miglia del Supermaschio di Jarry. Il carattere esplosivo dell’humour nero esprime la forza infinita che il piacere può opporre al principio di repressione e indica l’intensità con cui la vita potrebbe essere vissuta, con lo stesso scandalo di un suicidio differito sulla modalità del piacere.
È in questa prospettiva che bisogna collocare lo sconvolgente tentativo dell’Indiano Marcueil e di Ellen, gli eroi di Supermaschio, così come le gigantesche catene di godimento che Sade ha creato per soffocare l’idea del tempo e la non-libertà che questa presuppone.
L’humour nero porta la realtà al confine della sua inesistenza, taglia gli ormeggi del pensiero con un tempo fittizio al fine di un reale rovesciamento del mondo in balìa del piacere. Questo diventa allora la sola misura della realtà, e giunge a far scoppiare i filtri della sottomissione, dell’abitudine, del sentimentalismo che impediscono all’uomo di vedere il corso della propria vita, fosforescente di godimento. Allo stesso modo è qui che si afferma il potere sovversivo dell’humour nero, poiché il piacere diventa il criterio di valutazione d’un mondo che è troppo spesso quello del non-piacere. Allora l’humour nero può essere visto come equivalente a una di quelle scoperte per le quali bisognerebbe inventare nuovi modi di sentire e di pensare. Tutte le convenzioni morali e intellettuali si sbriciolano; la vita è valutata secondo metri più mutevoli e più sicuri, più agitati e più precisi. «Sono vuoto di idee e poco sonoro, certo più che mai registratore incosciente di molte cose, in blocco… Potrei essere cacciatore di pelli, o ladro, o cercatore, o minatore, o scandagliatore. Bar dell’Arizona (whisky-gin and mixed?) e belle foreste da sfruttare, e sapete quelle belle brache da cavallo, con tanto di pistola a ripetizione, rasato a puntino, e bellissime mani da solitario… tutto finirà con un incendio, ve lo dico io, o in un saloon, una volta arricchito… Mi hanno assicurato che la guerra era finita. Purché non mi decervellino loro mentre mi tengono in pugno». Così si esprimeva Jacques Vaché in una delle sue ultime lettere ad André Breton.
Da questo punto di vista, è dal più alto punto di godimento che devono passare tutte le linee dell’orizzonte umano, e questo movimento del piacere che prende le distanze dal non-piacere diventa espressione del grande rifiuto, esplosivamente superato dall’intensa volontà di non fermarsi a quel punto. Atteggiamento di fronte alla vita, che si fa e si disfa, istante che passa col passare del tempo, l’humour nero disegna, alla luce delle sue manifestazioni più diverse, l’etica del piacere meno corrotta, se mai ve ne fosse una; in questo senso, è la valutazione sempre negativa del mondo in rapporto all’eccesso di desiderio e, nello stesso tempo, l’adattamento più sovversivo che non può realizzarsi se non nella consapevolezza dell’infinita distanza che separa la necessità interiore dai suoi punti di tangenza con la realtà. Ed un’osservazione come quella di Xavier Forneret: «L’abete con cui si fabbrica la bara è un albero sempre verde», dimostra abbastanza bene che il dinamismo profondo dell’humour nero è di cercare, in nome del desiderio, le fratture dell’indeterminazione nell’opacità del reale, attraverso un movimento contraddittorio che rifiuta, contemporaneamente, l’accettazione passiva della realtà e il suo rifiuto suicida.
Sintesi contraddittoria, sovversione allo stato puro, l’humour nero è un comportamento che ogni volta scuote i limiti stabiliti della condizione umana. Non cessa di mimare la realtà attraverso la più forte esplosione di piacere possibile; e, al di là dell’affermazione in termini negativi, al di là della negazione in termini affermativi, esso sopravvive grazie a un dinamismo che illumina tutti i punti della contraddizione del vivere e che non brilla meno di tutti i fuochi della vita. Da qui la sua estrema qualità liberatrice su cui deve insistere il nostro discorso; fosse essenzialmente discorsivo, l’analisi che propone tende a mettere in evidenza, ancora una volta, solo i limiti stessi del pensiero discorsivo.
In effetti, nella gioia immensa che lo spirito trova nell’humour nero, mai riducibile ad un’espressione discorsiva pena l’immediata neutralizzazione, si può affermare che vi sia come l’abbozzo di un modo di comprendere, capace infine di soddisfarlo interamente. In questo senso, André Breton scrive nella sua prefazione all’Antologia dell’humour nero: «Abbiamo, in effetti, più o meno oscuramente il senso di una gerarchia, il cui primo posto è assicurato all’uomo, che possiede integrale l’humour nero. È per questo che ci sfugge, e ci sfuggirà senza dubbio per lungo tempo, ogni definizione globale dell’humour…».
Da un altro punto di vista, Freud sottolinea ugualmente «il carattere di alto valore» dell’humour che «riconosciamo come particolarmente adatto a liberarci e ad esaltarci». Questo piacere, di cui apprezziamo le rare qualità, potrebbe avere la sua origine nella coordinazione dinamica delle incompatibilità ed in questa logica insurrezionale che lo spirito riesce ad inventare spontaneamente per trovarsi infine all’altezza delle contraddizioni della vita. E non ci si può impedire di pensare a questa dialettica cui la logica moderna dovrebbe ricorrere, e che Stéphane Lupasco ha descritto nel 1947 in Logica e contraddizione e che ha definito in opposizione a quella di Hegel: «Una dialettica esattamente contraria a quella di Hegel è effettivamente possibile, quella in cui è il valore del negativo e del diverso, ovverossia ciò che lui chiama antitesi, che attualizzandosi virtualizza il valore contraddittorio di affermazione e di identità che costituisce la sua tesi; ed anche una terza dialettica, quella in cui né l’una né l’altra possono prevalere e che dunque produce una contraddizione relativa, progressiva». Come l’immagine poetica, l’humour nero scaturisce dalla distanza che separa il soggetto dall’oggetto, interno in qualche modo a entrambi, stabilendo tra loro una relazione dinamica, contraddittoria e necessaria. Relazione in cui il soggetto e l’oggetto sono dati simultaneamente in funzione complementare di ciò che li contrappone, l’humour nero ha allora per lo spirito la stessa forza liberatrice delle immagine poetiche più forti, poiché non risolve niente, vìola le leggi abituali del pensiero ed annuncia una possibile comprensione del mondo nei suoi termini contraddittori, per la conquista di un significato senza fine che potrebbe forse rispondere alla grande questione dell’esistenza che il desiderio pone in ogni attimo della vita.
In questo senso, per raggiungere il punto più alto della gerarchia di cui ha parlato Breton, è quasi certo che bisogna passare attraverso questa sregolatezza di significati che Marcel Duchamp, pienamente cosciente della distanza che separa l’uomo da ciò che lo circonda, riesce non a ridurre, ma a riorientare in funzione del piacere, sia che si tratti della sua «pigra chincaglieria», della sua «fisica divertente» o della sua «casualità ironica».
In maniera del tutto naturale, questa logica insurrezionale, o questa «razionalità della soddisfazione» per riprendere l’espressione di Marcuse, cioè questa modificazione radicale della percezione e della rappresentazione, finisce per mettere in discussione – e di molto anche – l’idea di persona come noi la concepiamo attualmente. Sembra, in effetti, che il mondo soggettivo sia attraversato da una corrente ad alta tensione, scaturita dalla presenza dei poli contrari del dolore e del piacere, della lucidità e dell’apparentemente fortuito, della gravità e del gioco. «Portatemi piuttosto una corda per appendermi la lingua, ed una tenaglia per strapparmi qualche lacrima. Il ragno, che tesse la sua vita con il filo arrotolato intorno al mio collo, non ha mai detto quale disperazione lo facesse scoppiare di risate come un coccodrillo» – scrive ancora Jean-Pierre Duprey in La Fin et la manière.
La soggettività è allora dilatata fino al punto di penetrare nel cuore del mondo oggettivo grazie a un folgorante accorciarsi della distanza abituale, e tanto da non poter continuare ad esistere che insorgendo totalmente; in questo senso, Freud fa a proposito dell’humour l’osservazione seguente, ancor più valida per l’humour nero: «Come mezzo di difesa contro il dolore, esso si colloca nella grande serie dei metodi che la vita psichica ha costruito per sottrarsi alla costrizione del dolore, serie che si apre con la nevrosi e la follia, abbraccia nello stesso modo l’ebbrezza, il ripiegamento su se stessi, l’estasi».
In rapporto diretto con le forze dell’inconscio, l’humour nero crea dunque una soggettività insurrezionale sempre suscettibile di annichilirsi per rinnovarsi e che sceglie subito, come punto di contatto e di penetrazione, proprio i punti ardenti che illuminano questa incongruenza esistenziale del piacere e della realtà. Come è noto, Freud spiega il dinamismo dell’atteggiamento umoristico col fatto che «l’umorista ha tolto al suo io l’accento psichico e l’ha aggiunto al suo super-io» e dimostra «che diventa allora facile al super-io, grazie ad una tale ripartizione di energie, soffocare le eventuali reazioni dell’io».
Ma ciò rivela all’uomo la capacità di crearsi dal più profondo di sé, spontaneamente e per un istante, un doppio, dotato d’una libertà prodigiosa, e tanto più libero quanto più l’io è impigliato nelle maglie della realtà. Questo doppio, sempre in grado di diventare altro, si pone a distanza dal mondo e dall’io, sfugge a ciò che lo circonda, al suo io di contatto.
Quest’altro, essenzialmente multiplo nella sua unità interiore, provocante ed insolente nella sua sovranità immediata, è la parte irriducibile di ogni essere umano. Quest’altro è l’unico (nel senso stirneriano del termine), sempre capace di trasformarsi per meglio affermare la sua irriducibilità, ed è qui, io credo, che l’humour nero coincide con l’etica di un certo dandismo; quest’altro è l’unico, la cui più grande affermazione passa attraverso la più grande negazione, ed è qui che l’humour nero ci sembra essere, nel suo valore violentemente liberatore, una chiave che potrebbe aprire tutte le porte dei castelli di Sade e polverizzare le accuse di chi vuole trovare una colorazione fascista negli eccessi comuni del genere nero e dell’humour nero.
Nel contempo Breton traccia, a proposito di Nietzsche, un’interpretazione dell’humour che va molto lontano: «Non si tratta che di rendere all’uomo tutta la forza che è stato capace di attribuire al nome di Dio. Può darsi che l’io si dissolva a questa temperatura: io è un altro, dirà Rimbaud, e non si vede perché per Nietzsche non potrebbe trattarsi di una serie di altri, scelti secondo il capriccio del momento e specificamente designata».
L’humour nero preparerebbe così eventi folgoranti di una totalità dell’essere, al di qua di ogni principio della realtà, al di qua del tempo, al ritmo delle metamorfosi della rivolta, nei limiti sempre modificabili di una soggettività insurrezionale.
Arrivati a questo punto, dopo aver avvicinato i campi della libertà e del piacere che l’humour nero apre all’uomo, senza per questo dimenticare gli abissi che lo circondano, non si può fare a meno, alla luce dell’angoscia umana, di ricollocare ancora una volta questo atteggiamento ai limiti del riflesso di tutto ciò che rimane indeterminato. Questo lampo della lacerazione del vivere che è l’humour nero, non significa proprio che «il dramma umano non si scioglie e non si aggrava per nulla come per la contraddizione che esiste tra la necessità naturale e la necessità logica»? (André Breton, a proposito di Dalì). Non pone avanti in ogni momento nei suoi termini più vivi «l’angosciante questione della realtà e dei suoi rapporti con la possibilità»? (André Breton, a proposito di Duchamp). «L’adeguamento di coincidenze di oggetti, o di parti di oggetti: la gerarchia di questo tipo di adeguamento è in ragione diretta dell’eterogeneo» – dirà Duchamp. Fin dal 1935, André Breton aveva sottolineato che l’humour oggettivo si ferma davanti alle porte del meraviglioso; abbiamo insistito sul fatto che l’humour nero si distingue dall’humour oggettivo per la consapevolezza della rarità di questi viaggi al centro della vita, che ripete tutti i suoi movimenti. L’humour nero è una strada che rasenta i territori del caso oggettivo, e misura tutto ciò che li separa per mezzo di fessure attraverso cui riesce a forzare la realtà, per considerarla sotto una luce allucinatoria.
Dissodato un po’ il terreno dell’humour nero, abbiamo potuto scoprire zone d’intensa germinazione piuttosto che stagnanti. Così, più dell’humour oggettivo, più di tutti gli altri atteggiamenti, l’humour nero rende conto di questa contraddizione, del grande rifiuto del mondo e della sua unica accettazione possibile nell’insignificante, l’accidentale, l’arbitrario, il meno facilmente riducibile. E così come, secondo Hegel, lo spirito lavora sugli oggetti fin quando mantengono ancora un lato misterioso e non rivelato, vale a dire finché il contenuto è parte integrante dell’io, sembra che l’humour nero, per l’intensità di tutto ciò di cui è investito, possa diventare una via di tangenza che conduce talvolta a questa sorta di caso «attraverso cui si manifesta all’uomo, ancora in maniera assai misteriosa, una necessità che gli sfugge, quantunque la avverta profondamente come una necessità» (André Breton, La situazione surrealista dell’oggetto).
Se si considera infine l’abisso del nulla da cui si eleva l’humour nero, questa fiammata di piacere nel vuoto della non-esistenza, si capisce perché André Breton abbia parlato, nella prefazione all’Antologia dell’humour nero, di «alta magia», la più affascinante per l’uomo, quella capace di trasformare il non-piacere in piacere.
Per concludere, vorrei insistere sul fatto che non a caso André Breton termina la prefazione della sua antologia ricordando tutto ciò contro cui l’humour nero si scaglia violentemente, tutto ciò che nella sua estrema libertà intende annientare. Se si considera l’evoluzione storica dell’humour nero di cui Swift, all’inizio del XVIII secolo, è considerato da Breton come il vero iniziatore, questo atteggiamento sembra strettamente legato al vacillare dei sistemi che alienano l’individuo per farne un accessorio, da comandare e sfruttare. L’humour nero nasce nel momento in cui le spiegazioni proposte dal mondo diventano dubbie, nel momento in cui la vita, improvvisamente cosciente di se stessa, smentisce i sistemi e contraddice l’affermazione tautologica su cui tutto si basa; ed è in questo senso che bisogna associare intimamente l’humour nero al progresso dell’ateismo. Non fu forse Swift il primo a domandarsi se le chiese non fossero «i dormitori tanto dei vivi che dei morti», e non è proprio della concezione implicita dell’ateismo il restituire l’uomo alle contraddizioni della sua esistenza, e il permettergli di utilizzare per sé «la forza che è stato capace di attribuire nel nome di Dio»? Nell’humour nero, l’uomo affronta la vita sotto i fuochi incrociati della morte e del piacere, i soli capaci di esplorare lo spazio umano in ciò che ha ancora di inesplorato.
L’humour nero sarebbe un abbozzo spontaneo dell’ateismo più rivoluzionario, perché annuncia, in tutte le sue manifestazioni, un’etica, una razionalità del godimento.
«Calze di seta… la cosa anche» – ha proposto Marcel Duchamp.