Leggere senza essere disturbato

Paul K. Feyerabend

Nel marzo del 1938 l’Austria entrò a far parte della Germania. Per alcuni (una piccola minoranza) questa fu la fine della vita civile; per altri significò la liberazione dalla tirannia del totalitarismo cattolico che aveva governato l’Austria per anni; altri ancora accolsero positivamente l’unificazione con il Grande Fratello e la crescita di potere che essa implicava. «Guarda i nostri aerei!», esclamarono quando le forze aeree tedesche volteggiarono sopra Vienna. Correvano voci di progresso, di fine della stagnazione, di grandi opportunità. «Presto lavoreremo di nuovo», dicevano i disoccupati; «si occuperanno di noi», dicevano i poveri; «siamo finalmente liberi», dicevano i rappresentanti di minoranze politiche, tra cui eminenti socialisti. Adolf Hitler giocò in questo processo un ruolo importante e, considerando il modo in cui oggi egli viene dipinto, direi stupefacente.
Molti austriaci avevano seguito la sua ascesa al potere in Germania e avevano ascoltato i suoi comizi alla radio. Si trattava di avvenimenti con un’ottima coreografia: un popolare annunciatore descriveva il posto, la quantità di pubblico, gli esponenti politici e culturali presenti e le reti radiofoniche che avrebbero trasmesso il discorso. La lista era lunga: durante la guerra e in certa misura già prima, partecipavano numerose stazioni estere. Le bande militari suonavano motivi ben noti, fermandosi, ricominciando, fermandosi, ricominciando di nuovo: Hitler non era mai puntuale. Improvvisamente ecco la Badenweilermarsch, quella preferita da Hitler. In lontananza si sentiva un grido entusiastico, si avvicinava, cresceva di volume finché tutto l’uditorio diventava un’unica massa urlante di gioia. Uno o due discorsi di Goebbels, Hess, Goering o di un qualche dirigente nazista locale e, finalmente, Hitler. Iniziava lentamente, esitando, con una voce bassa, sonora: «Volksgenossen und Volksgenossinen!» – «Compatrioti e compatriote!» Molte persone, giovani e vecchi, uomini e donne, compresa mia madre, erano ipnotizzati dalla sua voce: bastava loro sentirne solo il suono per esserne come rapiti. «Amavo Hitler», scrive Ingmar Bergman nella sua autobiografia riportando le sue impressioni di quando andò in Germania da bambino. «L’unico volto tra uomini senza volto», fu la reazione di Heidegger. «È un fenomeno; peccato che io sia ebreo e lui un antisemita», disse Joseph von Sternberg, lo scopritore di Marlene Dietrich, il regista dell’Angelo azzurro e di diversi film hollywoodiani che seguirono. Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e inconvenienti Hitler aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione, almeno finché Hitler era ancora in buona forma fisica e teneva in pugno gli eventi. «Ecco un uomo che sa come parlare», disse papà che era stato ansioso di vedere l’annessione, «non come Schuschnigg» (il cancelliere austriaco, un intellettuale senza carattere né presa sul pubblico). Come mi influenzarono questi eventi? Quali furono le mie impressioni? Che cosa feci?
Nell’estate del 1988 ho letto l’autobiografia di François Jacob, La statua interiore, in cui racconta come da giovane decise di lasciare la Francia e di combattere Hitler nonostante l’armistizio e nonostante l’esistenza di una Francia «neutrale» sotto Pétain. Jacob aveva una visione chiara della situazione, un sentimento forte riguardo a ciò che era giusto e ciò che era sbagliato e agì di conseguenza. Io percepii la situazione in modo diverso. Molto di quanto avvenne l’ho appreso solo dopo la guerra, da articoli, libri e programmi televisivi e gli accadimenti di cui mi rendevo conto o non mi facevano alcuna impressione o avevano su di me effetti imprevedibili. Me li ricordo, posso descriverli, ma non vi era alcun contesto a fornire loro un significato e nessuno scopo per il quale poterli giudicare. Il 14 marzo 1938 (o era il 15 marzo?), il giorno in cui Hitler entrò a Vienna, iniziai la mia solita passeggiata verso il centro della città. Non andai molto lontano: alcune strade erano chiuse dalla polizia, altre erano piene di spettatori entusiasti. Una mania religiosa sembrava avere invaso la città. Terribilmente seccato me ne tornai a casa, dove mio padre ascoltava i comunicati alla radio, e io tentai di farlo smettere: il rumore disturbava la mia lettura (era una vecchia battaglia: papà si pasceva di notizie, io non avrei potuto interessarmene di meno). Per me l’occupazione tedesca e la guerra che seguì erano un fastidio, non un problema morale, e le mie reazioni nascevano da stati d’animo e circostanze contingenti, non da un punto di vista ben definito.
Così io elogiai gli inglesi quando mamma, sostenendo la tesi allora in voga, li condannò; ne venne fuori una grossa discussione. Ma d’altro canto scrissi, presentai e recitai una farsa che ridicolizzava la situazione nella Camera dei Comuni (io recitavo nella parte di Chamberlain con il suo ombrello; avevo quindici anni). Abbandonai un’adunata della gioventù hitleriana con la scusa, ascoltata con stupore, derisione e un po’ di rabbia, di dover andare a Messa (non era vero: avevo solo scelto la scusa più bizzarra che mi fosse venuta in mente). In altre occasioni obbedivo agli ordini: per esempio andavo in casa degli assenti per portarli agli incontri (non sempre ci riuscivo: alcuni genitori mi buttarono fuori senza complimenti). Quando papà comprò Mein Kampf lo lessi ad alta voce alla famiglia riunita. «Che modo ridicolo di esporre un’opinione» pensai, «rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare»; eppure conclusi un tema scolastico su Goethe legandolo a Hitler. Non c’era alcuna intuizione dietro questa manovra, nessuna convinzione profondamente sentita: la speranza di ottenere un buon voto sicuramente non giocò alcun ruolo, né mi ero lasciato attrarre dal «carisma» hitleriano come era accaduto ad artisti, filosofi, scienziati e milioni di uomini e donne comuni; e allora, che cosa mi aveva spinto a farlo? Presumo sia stata la tendenza (presente tuttora in me) ad assumere strani punti di vista e spingerli all’estremo. Fui molto toccato dalle primissime pagine del Mito del ventesimo secolo di Rosenberg: quasi sentii il flusso del sangue nazionale e il potere del Tutto dal quale esso proveniva. Due anni dopo, durante il giuramento collettivo che completava la prima parte del mio servizio militare (Arbeitsdienst), provai a rivivere quell’emozione, ma non ci riuscii. Ne ricavai che era stato un caso fortuito e che il giuramento era privo di contenuto. Alla fine dell’addestramento in Germania il comandante della compagnia ci fece scegliere: potevamo andare in Francia nella forza di occupazione o rimanere nelle retrovie a mantenere pulita la caserma. Io alzai la mano: «Vorrei rimanere qui»; il comandante venne verso di me: «Perché?», mi chiese. «Perché vorrei leggere senza essere disturbato» – «Gente come te dovrebbe essere sterminata (ausgerottet)», disse, e respinse la mia richiesta. Posso ancora vedere la smorfia d’odio sul suo viso. In Francia provai a organizzare un modo per andarmene, ma fui scoperto e assegnato a una unità particolarmente pericolosa. Tuttavia, quando rimanemmo incollati sulle rive del lago Peipus mi stufai e chiesi di essere mandato dov’era la battaglia. «Vali troppo per poter essere sprecato ora», disse Herr von Bewersdorff, «abbiamo bisogno di te dopo la guerra».
Più o meno in quel periodo meditavo anche di entrare nelle SS. Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non ideologiche.
[…]
Il cambio di governo fu seguito da alcuni cambiamenti a scuola: qualche insegnante scomparve, altri furono trasferiti. «È un ebreo», o «Ha una moglie ebrea», dicevamo senza farci troppo caso; questo, almeno, è l’impressione che ne ho oggi, retrospettivamente. In seguito ai miei compagni di classe ebrei furono assegnati banchi speciali in fondo all’aula. Ce n’erano tre, Weinberg, Altendorf e Neuern. Neuern aveva occhi tra il verde e il blu e capelli ricci: sedeva in prima fila, sul lato destro, vicino a Hlavka che io ammiravo; Altendorf era grasso e parlava con un tono piagnucoloso; Weinberg aveva gli occhi marroni, era aggraziato e ben vestito: posso vedermeli davanti come se se ne fossero andati appena ieri. Ci fu ordinato di mantenere le distanze, e la maggior parte di noi si adeguò, anche se a malincuore. Mi ricordo che una volta girai intorno a Weinberg nel cortile durante un intervallo e poi mi allontanai. Poi scomparvero anch’essi. Gente con stelle gialle sui vestiti compariva sugli autobus, sui tram e per le strade; colleghi ebrei venivano a trovare mio padre per chiedergli consiglio; il nostro vecchio medico di famiglia, il dottor Kronfeld, un signore geniale e spiritoso, non poté più esercitare e fu sostituito dal dottor Fischer, un altro signore geniale e spiritoso; uno dei nostri vicini, Herr Kopstein, lasciò il palazzo con suo figlio spingendo un carretto con dentro i loro averi. «Se ne stanno andando», disse papà, e tutti questi eventi erano strani e distanti quanto lo erano stati i giocolieri e i cantanti di strada, il bombardamento dei quartieri operai del 1934, i cadaveri e i marciapiedi insanguinati che incontrai tornando da scuola, l’aggressione sessuale che subii a tredici anni; ed altrettanto opachi. Non mi venne mai in mente di pormi qualche domanda in più: l’idea che il destino di ogni essere umano fosse in qualche modo collegato alla mia esistenza era assolutamente fuori dal mio campo visivo.
[…]
Al mio ritorno in Jugoslavia [dopo il suicidio della madre, N.d.R.] scrissi le mie impressioni sulla copertina di una copia del l’Ifigenia di Goethe. Era un giorno di sole e stavo seduto in un campo di granturco. Scrivevo del dolore di mio padre, della nostra separazione, della guerra e dell’incertezza
del vivere. Avevo i pensieri «giusti» e prendevo in considerazione le cose «giuste», ma le mie emozioni erano contorte e superficiali, sapevano di letterario invece di esprimere un sentimento sincero. Ero cosciente della discrepanza, sebbene non avessi esempi che potessero guidarmi. Lentamente le impressioni svanirono: quello che rimaneva erano i problemi della vita, giorno dopo giorno, in un paese occupato. Non incappammo mai nella Resistenza e raramente pensavamo a noi come a un esercito di occupazione. Da Vukovar ci spostavamo a Brod, Banja Luka, Novi Sad, Vinkovci e tornavamo indietro. Durante uno dei nostri viaggi un commilitone e io attraversammo un campo verso una fattoria. Una vecchia apparve al cancello. Noi eravamo affamati e chiedemmo, in tedesco, del latte e del pane di granturco. La donna ci rispose in inglese: era stata negli Stati Uniti e aveva ancora dei parenti là; era gentile, educata, parlò a lungo con noi, ma non ci diede da mangiare, spiegandoci anche perché: eravamo il nemico. Questo ci sorprese veramente.

[Ammazzando il tempo, 1994]