La cieca vita

No, non è il diluvio universale quello che si sta abbattendo sull’Emilia-Romagna, uccidendo e devastando, e che minaccia di spostarsi altrove. Inutile scrutare in alto implorando grazia divina, bisognerebbe guardare in basso realizzando vendetta terrena. Inutile anche ricordare che non esistono catastrofi naturali. Ormai lo sanno tutti, lo dicono tutti, perfino gli esperti mediatici. Cosa ha causato queste forti precipitazioni? Quel cambiamento climatico diretta conseguenza dello sviluppo industriale dominante tutto il pianeta. Cosa ha provocato effetti così micidiali? Quelle piccole e grandi opere costruite sempre per facilitare questo medesimo sviluppo. Quindi, con chi dovremmo prendercela per quanto sta accadendo e stiamo subendo, di chi è la responsabilità?
Di quanti accettano, partecipano e perpetuano questa civiltà, senza sognarsi minimamente di metterla in discussione. E non si pensi solo a chi la organizza traendone palesi vantaggi, ma anche a chi accetta di farsi organizzare contando su scontate comodità.
Per comprendere fino a che punto l’arroganza sia sempre accompagnata dall’indifferenza, un’incredibile e fortuita metafora viene in soccorso. In queste ore l’alluvione è alle porte di Ravenna, città nota per ospitare la tomba di Dante Alighieri. Fino a tre anni fa la sua dimora eterna (un tempietto in un vicolo del centro) era in stato di totale abbandono, piccolo e discreto antro adatto alla soddisfazione di ogni squallido bisogno. Quando ci finimmo per caso, rimanemmo stupiti della sorte riservata ai resti di colui che è considerato il più grande poeta italiano. Dopo un restauro costato 200.000 euro, nel settembre 2020 il sepolcro è stato riaperto al pubblico con tanto di sfarzosa inaugurazione presieduta dal presidente della Repubblica. Oggi il fango rischia di sommergerlo, vanificando l’ipocrisia delle istituzioni (d’altronde, non si tratta di quelle stesse istituzioni che intendono farsi parte attiva nella punizione di alcuni pericolosi imbrattatori ecologisti, ma evitano furbescamente di fare altrettanto in quella di alcuni bonari stragisti fascisti?).
La melma della civiltà sommerge la tomba della poesia, facendone perdere persino la memoria. Ma l’impressione è che Dante sia ancora oggi a metà strada fra l’Acheronte e gli Inferi, tra la «perduta gente» che affolla la società moderna. Questi esseri umani che trascorrono la propria vita agli ordini dell’autorità, del denaro, della tecnologia, davanti a schermi di tutte le dimensioni, non sono forse gli ignavi disprezzati dal sommo poeta, «le genti dolorose c’hanno perduto il ben de l’intelletto»? Questi uomini e queste donne vogliosi solo di carriera e sicurezza non hanno «l’anime triste di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo»? Gli onesti e rispettosi cittadini usi ad obbedir tacendo pur di non avere guai, pur di non correre rischi, non assomigliano a «questi sciaurati, che mai non fur vivi»? Delle vittime della propria ignavia non si può dire che «la lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte»? Le inutili ed insensate lamentele, suppliche e petizioni davanti alle catastrofi che si susseguono giorno dopo giorno non ricordano come «quivi sospiri, pianti e alti guai risuonavan per l’aere senza stelle»?
E proprio un cielo senza stelle contraddistingue il mondo in cui sopravviviamo con sempre maggior fatica. Un mondo il cui ingresso merita effettivamente di avere come insegna: «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». Non dovremmo star troppo a rimirare e a ragionare degli ignavi, ma solo guardare e passare oltre? E va bene. Ma, almeno nel nostro intimo, troviamo la sincerità di guardarci allo specchio e di trarre l’ovvia conclusione:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta».