Gli impiccati di Londra
Peter Linebaugh
In criminologia come in economia non esiste parola più importante di «capitale». Nella prima di queste discipline ci si riferisce alla morte, nella seconda ci si riferisce alla «sostanza» o alla «riserva» di vita – due significati apparentemente opposti. Lasceremmo volentieri agli etimologi il compito di spiegare il motivo per cui la medesima parola, «capitale», indichi al tempo stesso i crimini passabili della pena di morte e l’accumulazione di ricchezza fondata sul lavoro di un lavoro passato (o morto), se questa associazione pungente e paradossale non illustrasse con tanta precisione l’argomento di questo libro. In quanto esamina il rapporto esistente fra la messa a morte organizzata della manodopera vivente (la pena capitale) e lo sfruttamento del lavoro vivo (il capitale punitivo).
A partire dalla metà degli anni 70, la pratica della pena capitale si è intensificata ovunque nel mondo nel momento stesso in cui il capitale, dopo le emancipazioni coloniali, le rivendicazioni salariali inedite e le rivoluzioni culturali del periodo precedente, trovava un nuovo respiro. Quando si osservano più da vicino cinque dei paesi che l’hanno usata più di frequente o che ne hanno esteso l’applicazione, si constata che fra il 1979 ed il 1991 l’Iran ha triplicato il numero annuale di esecuzioni, le quali si contano oggi a migliaia; che la Nigeria ha esteso la pena capitale ai crimini finanziari fra il 1974 ed il 1977; che un enorme numero di persone sono state giustiziate in Cina a partire dal 1980; ed infine che dopo una moratoria ufficiale di dieci anni le esecuzioni capitali sono riprese negli Stati Uniti nel 1977. Secondo Amnesty International ammonterebbero in totale a circa 1000 esecuzioni l’anno a partire dal 1985, senza contare i morti non ufficiali di cui i governi sono comunque responsabili: gli «scomparsi», gli assassinati o le vittime degli squadroni della morte, per esempio. Il ricorso alla pena capitale è dunque stata una delle caratteristiche, tanto evidente quanto allarmante, di un periodo storico che è stato reazionario in tutti i sensi del termine.
In opposizione a questa tendenza si è così sviluppato il movimento contro la pena di morte. Ottanta paesi l’hanno abolita giuridicamente ed hanno smesso di praticarla. Nel febbraio 1987, nell’ambito della glasnost, l’Urss ha annunciato la sua intenzione di limitarla. È iniziato un dibattito pubblico sull’abolizione della pena di morte. Il 17 luglio 1987 la Repubblica democratica tedesca l’aveva abolita. Nel dicembre 1988, in Pakistan, la prima ministro Benazir Bhutto, il cui padre era stato impiccato nell’aprile del 1979, ha commutato la pena di 2000 persone condannate a morte. Nel marzo 1988 il colonnello Gheddafi ha invocato l’abolizione della pena di morte in Libia e, in giugno, è intervenuto per commutare le pene di tutti i condannati a morte. Nel 1995, la pena di morte è stata abolita in Sud Africa.
A differenza della Londra del XVIII secolo, dove l’annuncio delle impiccagioni, le ultime parole dei condannati, le loro biografie e gli scritti sui fatti che li riguardavano e sulle loro gesta godevano di ampia diffusione, si sa molto poco sulle recenti vittime della pena capitale e sul comportamento dei loro pari. Un fatto tanto più sorprendente, considerato che 19 paesi consentono le esecuzioni in pubblico. La stampa internazionale si mostra stranamente silenziosa a riguardo, mentre i media nazionali sono molto laconici. Un giornalista pakistano ha verbalizzato una delle ragioni di questo silenzio allorché, in seguito ad una pubblica esecuzione avvenuta nel 1988 davanti a 10.000 persone, dichiarò che «simili pene mostreranno lo Stato quale autore di violenze». Talvolta, nonostante un rapporto di forze impari, questa violenza si scontra con una reazione altrettanto violenta. Così, nell’aprile 1985, i prigionieri del penitenziario dello Stato della Virginia si sono ammutinati invano per impedire l’esecuzione di James Briley. Sono rari i condannati contemporanei di cui siano state conservate le ultime parole. In Cina, si dice, viene fatto passare un laccio attorno al collo per impedir loro di emettere il minimo suono durante la cerimonia di «umiliazione pubblica» che precede l’esecuzione. Questo silenzio venne eccezionalmente rotto da Nawal el Saadawi, il quale riportò le ultime parole di Ferdaous, giustiziata in Egitto nel 1974. Ferdaous si era rifiutata di domandare grazia quando il guardiano glielo aveva ordinato, affermando: «tutti devono morire, ma io preferisco morire a causa di un crimine che ho commesso piuttosto che morire a causa di uno dei crimini da voi commessi». Qui si sottolinea una contraddizione legata alla pena capitale che tutti coloro che si interessano al soggetto devono affrontare. Libera da ogni speranza e da ogni paura, Ferdaous aveva affrontato il proprio destino con grande coraggio: «questo viaggio verso un luogo sconosciuto da tutti su questa Terra mi riempie di orgoglio».
Il mio obiettivo qui non è di spiegare la contraddizione morale e politica enunciata da Ferdaous, ma di studiare tali questioni nel contesto sociale ed economico della Londra del XVIII secolo. […]
Come i drammi, ogni impiccagione era unica. L’impiccagione di un malfattore era un avvenimento preparato con cura, come dimostrato da Douglas Hay. Il pubblico era perfettamente al corrente del crimine; il colpevole veniva scelto per servire da «esempio»; ogni condannato, uomo o donna, era conosciuto dalle diverse categorie di londinesi in base al suo mestiere, al suo quartiere, alla sua età e al suo passato. La sofferenza dell’impiccato provocava emozioni diverse – collera, giubilo, pietà, terrore, paura –, ciascuna suscettibile di scatenare reazioni specifiche. Queste emozioni erano suscitate tramite diversi mezzi in funzione dell’identità del malfattore e della natura del crimine.
Le impiccagioni venivano autorizzate e ordinate dai membri di una classe dirigente che avevano studiato l’impiego della pena di morte nel corso della storia ed erano in grado di mettere in pratica le loro conoscenze. L’impiccagione era una delle rare occasioni (un’altra erano le incoronazioni) in cui le diverse istanze del governo (monarca, tribunali, Parlamento, Città e Chiesa) erano riunite. Il rinnovamento del «contratto sociale» giocava un ruolo altrettanto importante nel significato di queste spaventose messinscena. La maggioranza degli impiccati aveva infranto le leggi inerenti la proprietà privata, il cui rispetto costituiva il cuore del «contratto sociale». Si può quindi dire che, così come riaffermava la sovranità del potere, ogni impiccagione ribadiva la seguente lezione: «Rispettare la proprietà privata». Il conflitto messo in scena dalle impiccagioni, considerate dei drammi, opponeva i Potenti e i Benestanti ai Deboli e ai Poveri – un conflitto senza uscita, insanabile, e da cui pareva non si traesse mai insegnamento. Malcom X espresse questa constatazione nel 1949 quando, detenuto nella prigione di Norfolk, nel Massachusetts, era membro della squadra che batté il Massachusetts Institute of Technology nell’ambito di una gara oratoria: per sostenere la tesi secondo cui «la pena di morte è un mezzo di dissuasione inefficace», egli aveva ricordato alla giuria che il borseggiatore del XVIII secolo esercitava il proprio mestiere all’interno di una folla che assisteva all’impiccagione di un altro borseggiatore.
Se questa visione della situazione riflette un’importante verità, essa nondimeno è troppo semplificatrice, poiché la popolazione non era stupida al punto d’aver bisogno di tanti «esempi» per imparare la sempiterna lezione.
In effetti, la lezione stessa cambiò contemporaneamente al significato della parola «proprietà». Nel XVIII secolo la produzione della proprietà conobbe sconvolgimenti tali che la loro ampiezza fu paragonata alla rivoluzione neolitica, avvenuta quattromila anni prima (da qui l’espressione «rivoluzione industriale»). Gli usi della proprietà raggiunsero un livello di raffinatezza e di lusso così importanti che i pensatori contemporanei, meravigliati, ne fecero il fondamento della loro definizione di civiltà. Le leggi che reggevano la proprietà furono riviste, estese e codificate. Infine, il valore della proprietà subì una metamorfosi, conoscendo la stessa crescita spaziale, temporale e la stessa intensificazione del lavoro da cui derivava. In ragione di queste profonde mutazioni, la questione della produzione e quella della appropriazione venivano sollevate di continuo, generando nuove lezioni, divulgate ai piedi del Triple Tree ( il treppiedi che forma la struttura triangolare della forca di Tyburn, a Londra).
La presente storia affronta dunque i casi individuali come le peripezie di un dramma, ed in ciò assomiglia all’Account (il racconto del cappellano). Questa storia, attraverso la corda, dà conto di una storia di lotta di classe del XVIII secolo: una storia che integra sia lo spossessamento dei poveri dei mezzi di produzione (cosa che comporta l’«urbanizzazione») e sia l’appropriazione da parte dei poveri dei mezzi di sostentamento (il che implica i «crimini urbani»). Per presentare la tesi centrale di questo libro dirò anzitutto che le forme di sfruttamento proprie ai rapporti sociali capitalistici generarono o modificarono le forme dell’attività criminale, ma che è vero anche il contrario, cioè che le forme assunte dalla criminalità modificarono il capitalismo. In poche parole, le persone diventarono così povere da dover rubare per vivere e questi furti portarono a molte innovazioni nella società civile. Perciò non possiamo più considerare gli impiccati di Tyburn come miserabili vittime dello sviluppo storico, buone solo da gettare via e rimanere dimenticate nella spazzatura della storia. La popolazione criminale di Londra costituiva in sé una forza di cambiamenti storici. Le ricerche hanno rivelato che è difficile distinguere la popolazione «criminale» londinese dalla popolazione povera nel suo insieme. Possiamo quindi affermare che gli impiccati appartenevano alla popolazione povera. Inoltre gli impiccati, proprio come l’insieme dei lavoratori di Londra, lavoravano con le proprie mani e dedicavano tutta la loro energia a costruire la civiltà del XVIII secolo. È per questo motivo che possiamo ugualmente affermare che erano dei lavoratori poveri. Per finire, così come quelle della loro classe, le lotte degli impiccati ispirarono iniziative proprie ai loro dirigenti. Su questo concatenamento di lotta, iniziativa e reazione si è fondata una dialettica storica. Ed è per questo motivo che consideriamo la storia dei condannati come facente parte della storia della classe operaia del XVIII secolo.
Con tale proposizione, questo libro torna sulla problematica che concludeva Albion’s Fatal Tree: qual è il rapporto fra criminalità e classe operaia?
Si tratta certo di una vecchia questione, ma dopo il 1975 il dibattito su questo argomento mette l’accento più sul potere statale che sulla classe operaia, anche in chi adotta un punto di vista critico. Secondo Duncan Kennedy, teorico critico del diritto:
«Esiste da molto tempo una tradizione marxista che caratterizza lo Stato in un sistema capitalista come il comitato esecutivo della classe dirigente, riducendo le decisioni esecutive, legislative o giudiziarie a semplice espressione degli interessi di classe. Esiste ugualmente da molto tempo una tradizione che insiste sul fatto che i responsabili governativi ed i giudici in un sistema capitalista aggirino spesso, o trasgrediscano apertamente, le regole per nuocere a gruppi oppressi, perseguendo così i loro interessi di classe».
Cosa comporta questo modo di presentare la questione per la nostra riflessione sulla classe operaia?
Se il diritto è solo la maschera degli interessi di classe, allora la classe operaia disprezza le leggi ipocrite che pretendono di ispirarsi all’universalità. Essa adotta sia un punto di vista antinomico – non esiste diritto – sia un materialismo cinico e individualista. In entrambi i casi, la classe commette dei crimini e, così facendo, si abbassa al livello delle scimmie Yahoo che defecavano su Gulliver. Ma se il diritto esprime veramente ideali di giustizia che, trascendendo la loro corruzione, destituiscono i dirigenti della società, allora in una collera profetica la classe operaia può rovesciare il mondo e giustificare i suoi crimini sociali come elementi di movimento che conducono alla società nuova e benevola che Gulliver scopre presso i cavalli Houyhnhnms. Insomma, i primi creano la giustizia mentre i secondi la restaurano nel suo ideale.
Questa antinomia può permettere di comprendere il problema. Il libro Whigs and Hunters s’inseriva ad esempio nella seconda di queste due correnti. Dimostrando lungo le pagine la corruzione di sir Robert Walpole e del suo regime, termina con un discorso che presenta il diritto come un bene umano assoluto. Al contrario, Albion’s Fatal Tree afferma che il diritto era il perno dell’autorità della classe dirigente, ricoprendo per certi aspetti il ruolo un tempo svolto dalla religione; lo studio dei lavoratori poveri mostrava che essi erano sia dei ripugnanti Yahoo che degli amabili Houyhnhnms. Ma questa antinomia, se non è comica, è limitata ed errata. Essa prende come punto di partenza il diritto e il suo potere sull’intelletto, simile a quello di un idolo. Il nostro non è né diritto né «diritto critico», ma gli uomini e le donne impiccate le cui opinioni ed azioni erano una sfida permanente lanciata al diritto e alla loro stessa classe. Attribuendo loro troppo frettolosamente la definizione di criminali sociali che rubavano ai ricchi o di puri criminali che rubavano ai poveri, i nostri giudizi fanno da schermo ai loro.
Gli scambi tra lavoro vivo e quelli che lo sfruttavano costituiscono un perno dei rapporti di classe nel XVIII secolo. Tale legame viene generalmente percepito come un legame monetario o salariale da un lato, gli imprenditori comprano forza lavoro mentre, dall’altro, i lavoratori ottengono più o meno di che assicurare la propria sopravvivenza e continuare a lavorare. Tuttavia, nella Londra del XVIII secolo, questo legame talvolta non era monetizzabile né in teoria né in pratica. La natura dei rapporti di classe si esprimeva sotto altre forme, che non erano universali ma specifiche d’ogni situazione. È impossibile determinare in maniera teorica prima di ogni ricerca fattuale reale se il lavoratore o la lavoratrice traessero i propri mezzi di sussistenza dall’officina, dal mare o dalla terra (luoghi di produzione dove si trovavano materiali e strumenti) oppure dalla strada, dal mercato o dalla casa (luoghi di consumo dove si trovavano cibo, bevande, amore e vestiti). Questo argomento, che ho già espresso in passato, è stato criticato da Joanna Innes e John Styles, i quali pensano che «il lavoro salariato è stato spesso accettato con entusiasmo» e si interrogano sull’«interesse di definire il capitalismo come avente bisogni specifici».
Se queste posizioni costituiscono una parte della verità, può darsi non sia quella immaginata dagli autori. Certo, i lavoratori rifiutavano raramente il denaro, anche quando pensavano che questo li avrebbe privati di altre forme di sostentamento. Gli uomini e le donne del XVIII secolo volevano senza dubbio del denaro. Tuttavia ciò non significa affatto che si lanciassero con entusiasmo verso il lavoro salariato, del resto molto spesso fatale. A proposito dei «bisogni del capitalismo», si potrebbero ricordare queste parole: «Il capitale è del lavoro morto che, simile al vampiro, si anima solo succhiando il lavoro vivo, e che è tanto più vivo quanto più ne succhia». O anche: «Accumulare, accumulare. È la Legge e i profeti». Tuttavia, questi «bisogni del capitalismo» possono essere descritti solo con l’antagonismo che contrappone il capitale al lavoro morto.
[The London Hanged. Crime and Civil Society in The Eighteenth Century, 1991]