La guerra meccanica

Henri Bergson

A lungo la Germania si è dedicata alla poesia, all’arte, alla metafisica. Era fatta, diceva, per il pensiero e per il sogno; «non possedeva il senso della realtà». È vero che la sua amministrazione lasciava a desiderare, che era divisa in Stati rivali gli uni degli altri, e che a certi momenti, l’anarchia poteva parere irrimediabile. Pure uno studio attento avrebbe rivelato, sotto tale disordine, il solito lavoro della vita, che comincia sempre con l’essere troppo densa, e che quindi sfronda, sceglie, si ferma a una forma duratura. Dall’attività comunale, che era intensa, sarebbe, alla lunga, sorta una buona amministrazione, che avrebbe assicurato l’ordine senza sopprimere la libertà. Da un accordo più stretto tra gli Stati confederati sarebbe sorta quell’unità nella diversità che è la caratteristica propria degli esseri organizzati. Ma per tutto questo occorreva del tempo, come ne occorre alla vita per esprimere tutto quanto essa porta in sé.
Ora, mentre la Germania così lavorava su di se stessa, organicamente, vi era all’interno, o piuttosto accanto a lei, un popolo presso il quale tutte le cose avevano la tendenza di succedere meccanicamente. Artificiale era stata la formazione della Prussia, poiché si era creata cucendo lembo a lembo, con filo grossolano, province acquistate o conquistate. Meccanica era la sua amministrazione, che funzionava con la stessa specie di regolarità di una macchina ben congegnata. Meccanico, di estrema potenza e precisione era anche l’esercito su cui si concentravano le cure degli Hohenzollern. Sia che il popolo fosse stato educato per secoli all’obbedienza macchinale, sia che l’istinto elementare di conquista e di rapina, assorbendo la vita della nazione, l’avesse semplificata e riavvicinata alla materialità, sia infine che così fosse costituito il carattere prussiano, erano visioni di rigidezza, di automatismo quelle che evocava l’idea della Prussia, come se meccanica vi fosse stata ogni cosa, dal gesto dei suoi re al passo dei suoi soldati.
Venne un giorno in cui la Germania dovette scegliere tra un sistema d’unificazione rigido e bell’e fatto, che sarebbe venuto dal di fuori a sovrapporsi meccanicamente a essa, e l’unità che si sarebbe formata dal di dentro, per uno sforzo naturale della vita. Le era offerta allo stesso tempo la scelta tra un meccanismo amministrativo in cui essa non avrebbe avuto che da incastrarsi – ordine, senza dubbio, completo, ma povero come tutto quanto è artificiale – e l’ordine più ricco e più agile cui mettono capo, di per sé, le volontà liberamente associate. Che avrebbe fatto?
Viveva là un uomo che incarnava i metodi della Prussia, – genio, diciamo pure, ma genio del male, perché era senza scrupoli, senza fede, senza pietà, senz’anima. Aveva allontanato il solo ostacolo che avrebbe potuto inceppare il suo disegno: s’era tolta di mezzo l’Austria. Si disse: faremo adottare alla Germania, con l’accentramento e con la disciplina della Prussia, tutte le nostre ambizioni e tutti i nostri appetiti. Se essa esita, se i popoli confederati non si risolvono di per sé a questa decisione comune, so io come debbo spingerveli: farò su tutti loro passare lo stesso soffio d’odio. Li scaglierò contro un nemico comune, un nemico che avremo ingannato, atteso al varco e che cercheremo di sorprendere disarmato. Allora, quando scoccherà l’ora del trionfo, io sorgerò; alla Germania inebriata strapperò un patto che, come quello di Faust con Mefistofele, essa avrà firmato col proprio sangue, e col quale pure, come Faust, per i beni della terra avrà venduto la sua anima.
Fece come aveva detto. Il patto fu concluso. Ma, perché non si potesse rompere, occorreva che la Germania sentisse per sempre la necessità dell’armatura in cui si era imprigionata. Bismarck vi provvide. Tra le confidenze sfuggitegli di bocca e raccolte dai suoi familiari, si trova questo passo rivelatore: «Non abbiamo preso nulla all’Austria dopo Sadowa, perché volevamo poter un giorno riconciliarci con essa.» Dunque, prendendoci l’Alsazia e una parte della Lorena, egli si diceva che non vi sarebbe stata riconciliazione possibile con noi [la Francia, N.d.R.]. Voleva che il popolo tedesco si credesse in pericolo permanente di guerra, che il nuovo impero rimanesse armato sino ai denti, e che la Germania, invece di dissolvere in sé il militarismo prussiano, lo rinvigorisse col militarizzarsi a sua volta.
Lo rinvigorì e, giorno dopo giorno, la macchina diveniva complicata e potente. Ma ecco che essa stava per produrre, automaticamente, un effetto di gran lunga diverso da quello che i costruttori avevano preveduto. Si ripeteva la favola della strega che con un incanto magico, aveva ottenuto che il suo manico di scopa andasse a riempirle i secchi alla corrente, ma non conoscendo la formula per fermarlo, vide il proprio antro inondarsi di tant’acqua che vi affogò.
L’esercito prussiano era stato organizzato, perfezionato, curato con amore dai re di Prussia perché servisse al loro istinto di conquista. Allora, si trattava soltanto di prendere della terra al vicino: la terra era pressappoco tutta la ricchezza. Ma col XIX secolo, inizia qualche cosa di nuovo. L’idea propria di quel secolo, di piegare la scienza alla soddisfazione dei bisogni materiali dell’uomo, ha provocato uno sviluppo così straordinario dell’industria e, per conseguenza, anche del commercio, che l’antica concezione della ricchezza ne è rimasta tutta sconvolta. Non erano occorsi più di cinquant’anni per produrre tale trasformazione. Dopo la guerra del 1870, una nazione fatta per appropriarsi i beni della terra doveva di necessità diventare industriale e commerciale. Per questo, non avrebbe mutato nulla in quello che costituiva il suo principio. Anzi, non avrebbe avuto da far altro che utilizzare le abitudini di disciplina, di metodo, di tenacia, di cura minuziosa, di informazione precisa – diciamo anche di indiscrezione e di spionaggio – cui doveva l’accrescimento della sua potenza militare. Si sarebbe concessa in tal modo un’industria e un commercio altrettanto formidabili quanto il suo esercito, e che avrebbero anch’essi proceduto militarmente.
Si videro da allora progredire insieme, prestandosi reciproco sostegno, da una parte l’industria che era sorta all’appello dello spirito di conquista, dall’altra l’esercito che incarnava questo spirito, la marina che era venuta ad aggiungersi all’esercito. L’industria aveva un bello svilupparsi in tutti i versi: la sua prima mira era la guerra. In opifici giganteschi, quali non s’erano ancora visti al mondo, migliaia di operai lavoravano a produrre cannoni, mentre accanto, all’officina, al laboratorio, tutto quello che aveva potuto inventare il genio disinteressato dei vicini, era subito carpito, inflesso, convertito in macchina di guerra. Vicendevolmente, l’esercito e la marina, che dovevano il loro aumento alla ricchezza crescente del paese, saldavano il loro debito mettendosi a disposizione di questa ricchezza: si sarebbero incaricati di aprire vie al commercio, sbocchi all’industria. Ma, per tal modo, il movimento impresso alla Prussia dai suoi re, il movimento trasmesso dalla Prussia alla Germania, era sul punto di deviare accelerandosi, precipitandosi. Presto o tardi, doveva sfuggire a qualunque direzione e diventar la corsa all’abisso.
Lo spirito di conquista, infatti, ha un bel conoscere limiti di sorta: circoscrive le sue ambizioni immediate finché si tratti semplicemente di prendere la terra al vicino. Era occorsa ai re di Prussia una lunga serie di guerre per costruire il loro reame. Anche chiamandosi Federico o Guglielmo, non si può annettere più di una o due province per volta: ci si indebolirebbe a prenderne di più. Ma supponete che alla nuova forma di ricchezza si applichi lo stesso insaziabile bisogno di conquistare: l’ambizione, che sino ad allora scaglionava le sue scadenze in un lasso indefinito di tempo perché ciascuna di esse le poteva valere soltanto una porzione definita di spazio, si getta a un tratto verso un obiettivo illimitato quanto lei. Su tutti i punti del globo dove scorgeranno materie prime per la propria industria, punti di scalo per le propri navi, concessioni per i propri imprenditori o sbocchi per i propri prodotti, si arrogheranno diritti. In realtà, la politica che era riuscita così bene alla Prussia stava per trapassare, senza transizione, dalla prudenza più accorta alla temerarietà più folle. Bismarck, ritardando, per così dire, su se stesso, sentiva ancora una certa ripulsione per le imprese coloniali; diceva pure che tutte le questioni d’Oriente non valevano le ossa di un granatiere della Pomerania. La Germania, da parte sua, seguiva l’impulso datole da Bismarck e si slanciò necessariamente verso le due direzioni che si aprivano a est e a ovest: da un lato era la via dell’Oriente; dall’altro l’impero del mare. Ma, con questo, dichiarava virtualmente la guerra a coloro che Bismarck si era procurati alleati o amici. La sua ambizione mirava a dominare il mondo.
Nessuno scrupolo poteva, del resto, trattenere questa ambizione. Inebriata dalla sua vittoria, del prestigio guadagnatovi di cui profittavano il suo commercio, la sua industria, la sua scienza stessa, la Germania si sprofondava in una prosperità materiale quale non aveva mai conosciuta, quale non avrebbe osato sognare. Essa si diceva che se la forza aveva fatto tale miracolo, se la forza aveva potuto dare la gloria e la ricchezza, ciò significa che la forza racchiudeva, senza dubbio, in sé una virtù misteriosa, una virtù divina. Sì, la forza brutale col suo corteo di astuzie e di menzogne, quando giungeva con tanto slancio da spingere alla conquista del mondo, doveva provenire direttamente dal cielo e manifestare in terra la volontà di Dio. Il popolo che riceveva questo slancio, era il popolo eletto, razza di padroni, accanto agli altri che sono razze di schiavi. A un tale popolo, nulla è interdetto di quello che può giovargli a fondare il suo dominio. Non gli si parli di un diritto inviolabile! Il diritto è quello che è inscritto in un trattato; il trattato è quello che registra la volontà del vincitore, cioè la direzione attuale della sua forza: dunque forza e diritto sono la stessa cosa; e se piace alla forza di prendere una direzione nuova, l’antico diritto diventa roba vecchia, il trattato che lo consacrava, non è più altro che uno straccio di carta. Così, si traduceva in idea la meraviglia della Germania innanzi alle sue vittorie, innanzi alla forza brutale che era stato lo strumento, innanzi alla prosperità materiale che era il risultato. Ed ecco accorrere di qui, all’appello di questa idea, destati dal loro sonno, scuotendo la polvere delle biblioteche, mille pensieri che la Germania aveva lasciato dormire presso i suoi poeti e presso i suoi filosofi, tutti i pensieri che potevano prestare una forma seducente o impressionante alla convinzione già fatta. Ormai, l’imperialismo tedesco possedeva la sua dottrina. La si insegnava a scuola, nelle Università; sui suoi principi si foggiava, senza stento, una nazione piegata all’obbedienza passiva, che non aveva, da contrapporvi, un ideale superiore. Molti hanno spiegato con tale dottrina le aberrazioni della politica tedesca. Non vi scorgo, per mio conto, altro se non una filosofia destinata a tradurre in idee quella che era, in fondo, ambizione insaziabile, volontà pervertita dall’orgoglio. È piuttosto un effetto che una causa; e il giorno in cui la Germania, cosciente del suo avvilimento morale, dicesse, per scusarsi di essersi affidata a certe teorie, che un errore non costituisce un delitto, si dovrebbe risponderle che la sua filosofia fu semplicemente la trasposizione intellettuale della sua brutalità, dei suoi appetiti e dei suoi vizi. E così, generalmente, delle dottrine con cui i popoli o gli individui spiegano quel che sono e quel che fanno. La Germania, divenuta definitivamente una nazione di preda, si appella a Hegel, come una Germania, accesa di bellezza morale si dichiarerebbe fedele a Kant, come una Germania sentimentale si sarebbe posta sotto l’invocazione di Jacobi o di Schopenhauer. Se si fosse rivolta verso qualunque altra direzione, se non avesse trovato tra i suoi il filosofo che le bisognava, se lo sarebbe procurato in un paese straniero. Onde il giorno in cui volle provare a se stessa che esistono razze predestinate, venne a prendere da noi, per innalzarlo alla celebrità, uno scrittore che noi non avevamo letto, Gobineau.
È pure altrettanto vero che un’ambizione perversa, quando si sia eretta in teoria, si sente più libera per giungere sino all’estremo: in tal modo, essa riversa sulla logica una parte di responsabilità. Se la razza germanica è la razza eletta, sarà la sola che abbia il diritto assoluto di vivere; le altre saranno razze tollerate da essa, e tale tolleranza sarà appunto quello che si chiama lo stato di pace. Venga la guerra; è l’annichilamento del nemico, quello che la Germania dovrà cercar di raggiungere. Non se la prenderà soltanto con i combattenti; massacrerà le donne, i fanciulli, i vegliardi; saccheggerà, incendierà; l’ideale sarebbe di distruggere le città, i villaggi, tutta la popolazione. Ecco quel che si troverà all’estremo della teoria. Ed ecco ora quel che stava all’origine.
Sin tanto che la guerra non era stata altro che il mezzo di risolvere una questione sorta tra due popoli, si localizzava il conflitto tra i due eserciti. A tale risultato, almeno, tendeva il progresso della civiltà. Le violenze inutili erano sempre più eliminate; le popolazioni inoffensive messe fuori causa. Così a mano a mano andava costituendosi un codice della guerra. Tuttavia l’esercito prussiano, organizzato com’era per la conquista, si adattava già male a questa legge. Ma dal giorno in cui il militarismo prussiano, divenuto militarismo tedesco, andò a raggiungere l’industrialismo, era l’industria e il commercio del nemico, erano le sorgenti della sua ricchezza, era la sua ricchezza stessa quella che la guerra doveva prendere di mira alla stessa stregua della sua potenza militare. Bisognava distruggere i suoi opifici per sopprimere la sua concorrenza; bisognava pure, per impoverirlo in modo definitivo e arricchire se stesso, taglieggiare le città, saccheggiare, incendiare. Soprattutto, la guerra doveva essere breve, non solo perché la vita economica della Germania non avesse troppo a soffrirne, ma anche e soprattutto perché la sua potenza militare non trovava, nella coscienza di un diritto superiore alla forza, il mezzo di sostenersi e di rifarsi. La sua forza morale che non era altro se non l’orgoglio della sua forza materiale, avrebbe subito le stesse vicende: a mano a mano che questa sarebbe stata spesa, quella si sarebbe logorata. Non bisognava lasciarle il tempo di logorarsi. Bisognava che la macchina producesse tutto il suo effetto in un colpo. Sarebbe riuscita se poteva terrorizzare le popolazioni e paralizzare in tal modo il paese. Per questo, non doveva impacciare d’alcuno scrupolo il funzionamento dei suoi meccanismi. Onde un sistema d’atrocità preparato anticipatamente, congegnato, così sapientemente come la macchina stessa.
Tale è la spiegazione di quello che abbiamo sott’occhio. «Barbarie scientifica», «barbarie sistematica», è stato detto. Sì, barbarie che si è rinvigoriva asservendo le forze della civiltà. Attraverso tutta la storia che abbiamo raccontato, è presente come un echeggiare continuo di militarismo e di industrialismo, di macchinismo e di meccanismo, di basso materialismo morale. Tra molti anni, quando nello sfondo del passato si potranno scorgerne soltanto le grandi linee, ecco forse come ne parlerà un filosofo.
Dirà che l’idea, propria al XIX secolo, di adoperare la scienza alla soddisfazione dei nostri bisogni materiali aveva dato alle arti meccaniche inattesa estensione e procacciato all’uomo, in meno di cinquant’anni, più strumenti di quanti non ne aveva fabbricati durante le migliaia d’anni da lui trascorse sulla terra. Ogni macchina nuova, essendo per l’uomo un nuovo organo – organo artificiale che va a prolungare i suoi organi naturali – il suo corpo ne venne improvvisamente e prodigiosamente ingrandito, senza che la sua anima avesse potuto dilatarsi così presto da abbracciare tutto questo nuovo corpo. Da tale sproporzione sorsero problemi morali, sociali, internazionali, che la maggior parte dei popoli si sforzavano di risolvere colmando l’inventario, facendo in modo che vi fosse più libertà, più fratellanza, più giustizia di quanto si fosse vista nel mondo. Ora, mentre l’umanità tentava questo gran lavoro di spiritualizzazione, alcune potenze inferiori – stavo per dire infernali – combinavano l’esperienza inversa. Che avverrebbe se le forze meccaniche, che la scienza aveva condotte su di un punto per porle a servizio dell’uomo, si impadronissero dell’uomo per convertirlo alla propria materialità? Che diverrebbe il mondo se questo meccanismo si impossessasse di tutta quanta l’umanità e se i popoli, invece d’innalzarsi liberamente a una diversità più ricca e più armoniosa, come delle persone, ricadessero nell’uniformità come delle cose? Che sarebbe una società che obbedisse automaticamente a una parola d’ordine meccanicamente trasmessa, che su quella parola d’ordine regolasse la sua scienza e la sua coscienza, e che avesse perduto, col senso della giustizia, la nozione della verità? Che sarebbe un’umanità in cui la forza brutale tenesse le veci della forza morale? Quale nuova barbarie, questa volta definitiva, ne uscirebbe per soffocare i sentimenti, le idee, insomma la civiltà che l’antica barbarie portava in germe? Che avverrebbe, per dir tutto, se lo sforzo morale dell’umanità si rivolgesse contro se stesso al momento di raggiungere la sua meta, e se qualche artificio diabolico gli facesse produrre, invece di una spiritualizzazione della materia, la meccanizzazione dello spirito?
Per tentare l’esperienza, c’era un popolo predestinato. La Prussia era stata militarizzata dai suoi re; la Germania era stata militarizzata dalla Prussia; là c’era una nazione possente, che procedeva macchinicamente. Macchinismo amministrativo e macchinismo militare non aspettavano altro se non la comparsa del macchinismo industriale per combinarsi con esso. Fatta che fosse la combinazione, sorgerebbe una macchina formidabile. Essa avrebbe solo dovuto scattare per trascinare gli altri popoli dietro la Germania, assoggettati allo stesso movimento, prigionieri dello stesso meccanismo. Tale sarebbe stato il significato della guerra, il giorno in cui la Germania si fosse decisa a dichiararla.

[1914]