Cent’anni e la solitudine
Ci sono due fatti storici avvenuti ad un mese di distanza l’uno dall’altro, che nella mia mente rimangono strettamente legati. Uno (celeberrimo) mi evoca l’altro (sconosciuto ai più). Ecco perché il clamore suscitato dal centenario dell’evento che ha segnato l’ascesa al potere del fascismo, la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, non poteva che far riaffiorare nella mia mente la scomparsa dell’anarchico Renzo Novatore, bandito e poeta, ucciso dai carabinieri nel corso di un conflitto a fuoco il 29 novembre di quello stesso anno nei pressi di Genova. E se un mese fa sul primo anniversario si sono sprecate fin troppe parole, oggi c’è da scommettere che il secondo verrà ricordato a malapena a Novi Ligure, dove la locale caserma dei carabinieri è intestata proprio al maresciallo che uccise l’autore di Verso il Nulla creatore (venendo subito dopo abbattuto dal più famoso dei novesi, Sante Pollastro).
Questa ricorrenza mi tormenta da settimane. Non solo e non tanto perché ennesima dimostrazione di un passato che non si riesce a «correggere», quanto perché non fa che inchiodarmi in testa alcune amare considerazioni espresse da Novatore nell’ultimo periodo della sua vita. Davanti alla capitolazione di ogni speranza di liberazione, davanti alla constatazione della melma sociale che tutto travolge e sommerge, lui – l’esuberante amante del Sogno e dell’Ignoto – aveva perso la feroce ironia che lo contraddistingueva agli inizi. Il sorriso si era trasformato in ghigno. Assediato, letteralmente braccato dagli anemici funzionari della Realtà e del Banale («la turpe realtà che passa»), era diventato spietato. La piena consapevolezza della condizione umana gli mordeva la carne e l’anima, facendogli persino rimpiangere di essere nato («io non l’avrei voluta questa miserabile vita»), catapultandolo nella tristezza («Il sole è tramontato (il bel Sole d’oro) Gli Angeli della sera sono agonizzanti»), sbattendogli in faccia la propria solitudine («Sono solo! Solo con le mie malinconie. Solo con il mio Destino»). Ciò lo avrebbe portato ad un’ammissione, senza mezzi termini né ambiguità, inusuale per un anarchico: «non voglio e non posso sposare la causa del comunismo ateo, perché non credo nella suprema elevazione delle folle e perciò nego la realizzazione dell’Anarchia intesa come forma sociale di umana convivenza… Nettare per l’Io psichico è l’Anarchia e non alcool sociologico per collettività». Anarchico senza speranze di anarchia, Novatore viveva il proprio anarchismo sapendo di volgere al tramonto.
Ecco perché non riesco a non ripensare alle sue parole. È il contesto in cui furono scritte a colpirmi: a nemmeno dieci anni dalla Settimana Rossa, pochissimi anni dopo la rivoluzione russa, quella spartachista in Germania, e il biennio rosso e l’occupazione delle fabbriche in Italia – anni in cui la minaccia rivoluzionaria era temutissima perché concreta, visibile e palpabile ad ogni angolo di strada, con manifestazioni di protesta, scioperi e scontri che si susseguivano quotidianamente in tutto il continente. Eppure, nonostante quel clima incandescente che infiammava l’immaginazione di milioni di persone, Novatore sembrava non avere dubbi: nelle «basse paludi sociali» dove vive un’umanità suddivisa in rane e rospi gracidanti, disposti a «morire da imbelli» senza avere sul dorso «le ali di un’Idea», l’anarchia intesa in senso collettivo è solo una pia illusione.
Un secolo dopo, a che punto siamo? Gran parte dell’umanità viene ormai prodotta in serie in base a un algoritmo, motivo per cui la terra è sempre più «inutilmente calcata da lunghe falangi di pigmei salmodianti stupide preci». Le ali di un’Idea non interessano più nessuno, giacché non bisogna più essere pronti ad impadronirsi ancora una volta del cielo (le ventose di un’opinione facilmente intercambiabile sono assai più funzionali per strisciare sulla terra e raccogliere consenso).
Non lo scoppio di una guerra, ma la proclamazione di una pandemia è bastata a spingere miliardi di esseri umani a sopravvivere da imbelli, disposti a rinunciare volontariamente ad ogni minima libertà. Rinuncia a cui non hanno mancato di aderire anche molti, troppi sovversivi, la cui pericolosità sociale è una barzelletta ricorrente solo nella propaganda di Stato (a fini repressivi) e nella narrazione del contro-Stato (a scopi auto-promozionali).
E quindi: il pessimismo di Novatore era il frutto di un’autoesaltazione psichica, come pensavano i seriosi militanti dell’epoca, o di una lucida disperazione? Ma oggi, allorché è il mondo stesso a volgere al tramonto, l’ottimismo dei seriosi militanti non è forse un’autoesaltazione politica? E non è proprio una lucida disperazione la premessa minima necessaria per giocarsi ogni possibilità residua?